lunedì 16 ottobre 2017

LECTIO: XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A)

Lectio divina su Mt 22,1-14


Invocare
O Padre, che inviti il mondo intero alle nozze del tuo Figlio, donaci la sapienza del tuo Spirito, perché possiamo testimoniare qual è la speranza della nostra chiamata, e nessun uomo abbia mai a rifiutare il banchetto della vita eterna o a entrarvi senza l'abito nuziale.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
1rispondendo Gesù riprese a parlare in parabole ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo e disse: 2«Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. 3Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi  non vollero venire. 4Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i  miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. 5Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai  propri affari; 6altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli  invitati non ne erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. 10Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni  e cattivi, e la sala si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, 12gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori  nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo, cercando di ricordare quanto letto o ascoltato

Capire  
Il significato della parabola risulta molto chiaro se la leggiamo nel suo contesto. Essa segue immediatamente un’altra parabola sul Regno (21,33-43) e fa parte di una disputa di Gesù con i sommi sacerdoti e i farisei sulla sua missione e autorità (vedi 21,23-46). Il v. 1 del presente capitolo ne è la cerniera ricordando gli stessi interlocutori: i capi dei sacerdoti e i farisei.
Nella parabola precedente, la parabola della vigna, Gesù fa un riassunto della storia della salvezza. Dio circondava Israele con attenzione particolare e aspettava che tanta cura avrebbe prodotto frutto in una vita di fedeltà e giustizia. Di tempo in tempo inviava i profeti per ricordare al popolo il frutto che Dio attendeva, ma la loro missione incontrava sempre il rifiuto da parte di Israele. Finalmente Dio inviò il proprio Figlio, ma questi fu ucciso. A questo punto Gesù dichiara che siccome Israele continuava a rifiutare il Regno, questo passerà ad un altro popolo, cioè ai pagani (Mt 21,43). Questa frase ci offre la chiave di lettura per la nostra parabola che in realtà ripete il messaggio della precedente con un’altra immagine e altre sfumature.

Meditare
v. 2: Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio.
In questo versetto abbiamo una delle metafore bibliche per descrivere l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Il carattere fortemente nuziale di tutta la scena (il termine greco gàmos, nozze, viene riportato per  cinque volte: vv. 2.9.10.11.12) e richiama al libro dell’Apocalisse: “Ecco, sono giunte le nozze dell’Agnello” (Ap 19,7). Le nozze dell’Agnello rappresentano la volontaria immolazione di Gesù, con la quale Egli ha inaugurato il suo Regno. Con quest'invito, il Padre chiede di essere partecipi alla condizione del Figlio, ci chiede di essere partecipi della nuzialità del Figlio, che si manifesta attraverso il dono della sua vita sulla croce per tutta l’umanità.
vv. 3-5: Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi  non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i  miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze.
In questi versetti vi troviamo per due volte l’invio dei servi. Può essere una allusione all’invio dei profeti prima di Cristo, e l’invio degli apostoli dopo la risurrezione di Cristo Gesù.
Il termine greco utilizzato (kalèo) significa chiamare, dare il nome. Il termine indica l’atto di interpellare un altro allo scopo di farlo venire più vicino a sé sia fisicamente che nel senso di un rapporto personale. Il tempo utilizzato, inoltre, indica un’azione completa nel passato, ma che dura nei suoi effetti fino al presente e tende al futuro. Cioè, l’Alleanza che Dio ha stipulato con Israele è irrevocabile, rimane inviolata nonostante il rifiuto.
C’è un rifiuto da parte degli invitati. Coloro che Dio aveva chiamato, con i quali aveva stretto Alleanza, coloro ai quali aveva dato un nome, cioè a cui aveva riconosciuto una identità e dato una dignità, quella di popolo (e figli) di Dio, non accolgono l’invito. Questi invitati non si accorgono dell’irruzione nella storia del Regno di Dio: le nozze dell’Agnello. Hanno altre cose a cui pensare, sono dilaniati da altri interessi. Non sono disponibili a mutare il centro dei loro interessi. Per capire, san Paolo ci dice che grazie a questo rifiuto si apre una porta di speranza per gli altri: “Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?” (Rm 11,15) e continua: “Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia per la loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti in vista della misericordia usata verso di voi, perché anch’essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella misericordia, per usare a tutti misericordia” (Rm 11,30-32).
vv. 5-6: Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai  propri affari;
altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.
In questi versetti troviamo un riferimento al figlio di Dio. Basta ricordare ogni volta che cercava di evangelizzare la reazione degli astanti non era così felice. Oppure alla sua passione che la condotto fino al golgota dove morì sulla croce.
v. 7: Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Qui c'è un allusione alla distruzione del tempio di Gerusalemme avvenuta a opera dei Romani nel 70 d.C.. Matteo legge questa disgrazia come un preciso castigo di Dio nei confronti del suo popolo che non ha voluto accogliere i missionari cristiani.
v. 8: Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli  invitati non ne erano degni;
Ciò che il re dice ai servi non è una condanna per ciò che hanno fatto. Dice semplicemente che gli invitati non erano degni del banchetto di nozze per suo figlio: non erano adeguati. Non si tratta di essere degni rispetto a un merito che si possa acquisire, perché il Regno di Dio è donato gratuitamente agli uomini. L’amore gratuito della Trinità entra nel mondo, un amore infinitamente libero nella sua iniziativa. Ed è questo che ci è chiesto di meditare e di fare nostro: l’essere degni del banchetto di nozze del figlio del re significa dirci e lasciarci dire cosa sia questo per noi. Vuol dire fare nostra la logica di Dio che è una logica di alleanza, che è una logica di comunione, per la quale Dio si compromette; è la logica per la quale Dio è Dio solo se è amore, se è carità, se è servizio. L’essere degni vuol dire entrare in una logica di nozze, in quella logica per la quale tutto è rivolto, da parte di Dio, alla persona che ha deciso di amare nel Cristo suo figlio.
v. 9: andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.
Cambia la tipologia degli invitati. Adesso gli invitati sono quelli degli incroci, sono coloro che stanno nei luoghi dell’esodo, nei luoghi del passaggio, nei luoghi della Pasqua, nei luoghi della croce. Sono mescolati: buoni e i cattivi, per sottolineare la gratuità dell’invito. Seguire Cristo non fa parte di un ceto sociale di alto rango, tutti possono seguirlo, tutti possono sedersi a mensa con Lui. A questi viene rivolto l'invito. Il termine greco utilizzato è sempre kalèo: chiamare, ma l'imperativo aoristo usato, ordina di dare inizio a un’azione nuova. Alla vecchia economia se ne sostituisce una nuova, e alla vecchia comunità dell’Israele secondo la carne si sostituisce la nuova comunità di chi crede e confessa Gesù come il Cristo morto e risorto: il nuovo popolo di Dio, costituito sia dal resto di Israele che dai ‘convocati dalle genti’, i pagani, che Gesù stesso chiama ‘la mia chiesa’. 
vv. 10-12: Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni  e cattivi, e la sala si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì.
La sala si riempie di buoni e cattivi: sono i nuovi invitati. Sono invitati tutti e tutti possono entrare. Attenzione, nel momento in cui entri bisogna che tu ti lasci trasformare dalla logica del banchetto di nozze. Quando però il Signore ci chiama vuole anche che noi gli rispondiamo cambiando vita.
Il Signore chiama tutti, ma chi è chiamato deve rispondere al Signore con la propria vita. Non basta aver accettato l’invito; bisogna anche trasformare la propria esistenza in funzione di questo invito. Non basta essere cristiani avendo accolto l’annuncio della fede; bisogna anche lasciare che questo annuncio cambi la vita dell’uomo e la conformi alla volontà di Dio. La conversione è il presentarsi a Dio con un cuore adatto a ricevere i suoi doni. San Paolo ce lo fa capire con queste parole: “Perciò sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste: a condizione però di essere trovati già vestiti, non nudi” (2Cor 5,2). Quell'abito, che non sappiamo dove procurarcelo, è l'abito del Battesimo. Un abito che dovevamo custodire per tutta la vita. È quell’abito che riveste l’uomo nuovo, anzi, che è l’uomo nuovo; infatti non lo riveste come una sopravveste, ma, sconfitto l’uomo vecchio, carnale, lo sostituisce. Continua S. Paolo: “Sospiriamo come sotto un peso, non volendo venire spogliati, ma sopravvestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita”. Non una sopravveste, dunque, ma un abito nuovo che è Cristo stesso. Questa, dice un grande maestro spirituale bizantino: “aderisce a coloro che la indossano molto più della pelle e delle ossa. Le nostre membra non solo sono membra di Cristo, ma sono ricoperte del salvatore tutto intero” (Nicholas Cabasilas).
v. 13: Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori  nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.
 È un offesa a chi ti ha invitato di andare alla festa con l’abito ordinario da lavoro. È un segno che non tieni nella dovuta considerazione l’occasione a cui sei invitato. Questa immagine, utilizzata nella parabola del banchetto del Regno, vuol significare che non si entra nel Regno senza essersi preparati; l’unico modo per prepararsi ad esso è la conversione. Infatti, cambiare vestito nel linguaggio biblico indica cambiare stile di vita ovvero convertirsi (cfr. Rm 13,14; Gal 3,27; Ef 4,20-24).
L'espressione “pianto e stridore di denti” è molto usata in Matteo. Indica la condizione di coloro che sono stati esclusi dal banchetto delle nozze, dalla festa di Dio. Il pianto è di chi troppo tardi si pente e ammette il proprio errore. Lo stridore di denti è di chi si rode dalla rabbia per avere fatto la scelta sbagliata e dall'invidia per coloro che invece sono stati trovati degni di partecipare alla festa.
v. 14: Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
L’espressione è un semitismo. Nell’assenza del comparativo, l’ebraico biblico usa espressioni fondate su drastiche opposizioni. La chiamata non garantisce l'elezione: tra la vocazione gratuita e il giudizio escatologico permane la questione aperta della dignità cristiana. Tutti sono chiamati alla salvezza: l'esservi ammessi o meno dipende dalla nostra cooperazione alla grazia di Dio.
La generosità del re è immensa, ma bisogna prendere sul serio le esigenze del Regno. L’espressione è un pressante appello a non accontentarsi di una appartenenza formale al popolo di Dio. Non si può dare per scontato la salvezza. In questo Gesù segue da vicino l’insegnamento dei profeti. Basti ricordare Ger 7, 1-15 e Os 6,1-6.

La Parola illumina la vita
Mi è mai capitato di rifiutare l'invito di Dio per dedicarmi ai miei campi o ai miei commerci?
La mia vita dove è collocata?
Come vivo il mio Battesimo? Mi rivesto dell’abito nuziale? Di Cristo?


Pregare Rispondi a Dio con le sue stesse parole
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.

Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. (Sal 22).

Contemplare-agire 
La parola di Dio non la si può comprendere se Dio stesso non apre il cuore (At 16,14). Sforziamoci di piacere in tutto al Signore (cfr. 2Cor 5,9), e indossiamo l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo e tenergli fronte nel giorno della lotta (cfr. Ef 6,11-13).