sabato 10 settembre 2016

LECTIO: XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (C)

Lectio divina su Lc 15,1-32


Invocare
O Dio, che per la preghiera del tuo servo Mosè non abbandonasti il popolo ostinato nel rifiuto del tuo amore, concedi alla tua Chiesa per i meriti del tuo Figlio, che intercede sempre per noi, di far festa insieme agli angeli anche per un solo peccatore che si converte.
Egli è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Leggere
1 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3 Ed egli disse loro questa parabola: 4 «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5 Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6 va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». 7 Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
8 Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto». 10 Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17 Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20 Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22 Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. 23 Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa. 25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27 Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28 Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29 Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31 Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».

Silenzio meditativo: Ricordati di me, Signore, nel tuo amore.

Capire
Il capitolo 15 di Luca è un canto di gioia che celebra la felicità di chi ha ritrovato ciò che aveva smarrito. Allo stesso modo, il ritorno alla comunità di un fratello che si «converte» è festa di tutta la chiesa. E ancor più quale sarà la gioia del Padre per il ritorno di noi, suoi figli?
Rileviamo anzitutto, che Lc 15 costituisce un'unità letteraria. La sua struttura è semplice. Dopo l'introduzione (vv. 1-3), le due brevi parabole del pastore che ritrova la sua pecora (vv. 4-7) e della massaia che ritrova la sua dramma (vv. 8-10) sono perfettamente simmetriche e inseparabili l'una dall'altra. La terza parabola, molto più sviluppata (vv. 11-32), illustra l'insegnamento delle parabole precedenti: è la storia di un padre che ritrova suo figlio; e questa viene introdotta semplicemente con "Disse poi”.
Inoltre tutto il capitolo è guidato come da un filo conduttore dai verbi "perdere-perduto"', "ritrovare-ritrovato"; " rallegrarsi-far festa". Sono ripetuti rispettivamente sei/sette volte.
I vv. 7 e 10 con un efficace "Così vi dico..." dichiarano il messaggio delle due parabole: la gioia del pastore e della massaia sono pallido simbolo della gioia che "ci sarà in cielo" (v. 7), "davanti agli angeli di Dio" (v. 10) "per un solo peccatore che si converte" (id.)».
La nostra pericope evangelica (che volgarmente conosciamo come la parabola del figlio prodigo), in Luca non assume il tono di un'esortazione, ma è contenuto dietro un'apologia, una difesa della misericordia di Dio verso i peccatori.
Questo discorso sulla misericordia è un valore che possiamo capire solo se siamo sedotti dall'agire di Dio, sedotti dal comportamento del cuore di Dio.
Con questo brano evangelico, Gesù definisce i lineamenti autentici di Dio, e cioè la paternità di Dio. Ecco delineata in questa frase tutta la nostra spiritualità di cristiani, l’essenza del nostro essere "figli di Dio" (Gv 1,12). Allora inoltriamoci nel passo evangelico che la chiesa offre oggi per 1a nostra vita ed ascoltiamolo con "orecchie" e "cuore” nuovo.
Questa parabola ci riguarda. Veramente riguarda in particolare i farisei e gli scribi che sono dentro la parabola: il figlio maggiore rappresenta loro, e la parabola rimane aperta. Alla fine non sappiamo se il figlio maggiore, dopo avere sentito le parole del padre, si sia convinto e sia entrato o se si sia rifiutato e sia rimasto ostinatamente fuori senza partecipare alla festa. Sono loro che, sentito il racconto, debbono dire: un Dio così lo accettiamo o no?
Con questa parabola, attraverso la Parola del Figlio conosciamo il Padre. E in definitiva è proprio questa la missione del Figlio, far conoscere il Padre. Questa è la vita eterna: “che conoscano te, l'unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3).

Meditare
vv. 1-2: Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo
Due atteggiamenti balzano subito alla nostra attenzione, due modalità di porsi davanti a Gesù. I pubblicani e i peccatori "ascoltano" la parola di Gesù, manifestando così un desiderio di salvezza. I farisei e gli scribi, invece, mormorano, svelando ostinazione e rifiuto. Nei versetti, viene sottolineata la totalità; nessuno degli esclusi è escluso; «per ascoltarlo» tutti i peccatori sono ammessi come uditori della gloria di Dio. L’ascolto nel vangelo di Luca è l’atteggiamento del credente.
Luca colloca questa parabola in un contesto ben preciso: la critica di scribi e farisei all'atteggiamento che Gesù assume nei confronti di pubblicani e peccatori. Gli scribi e i farisei non riescono ad accettare il comportamento di Gesù che mangia e beve con i peccatori, con peccatori pubblici, che non solo hanno fatto qualche peccato, ma sono in una condizione permanente di peccato. La condivisione del pasto esprime una comunione, e siccome Gesù è un maestro e non appartiene alla razza dei peccatori, questa commistione di sacro e di profano, di giusto e di peccatore crea problema agli scribi e ai farisei.
Farisei e scribi mormoravano.
Nella Bibbia questo verbo è il verbo della contestazione di Dio e del rifiuto del suo modo di dare salvezza. Ricordiamo nell'esodo: “Perché ci hai fatto uscire dall’Egitto?” (Es 17,3); questo è il verbo che percorre i libri biblici che parlano di Israele nel deserto e della ribellione a Dio e ai suoi doni. È il verbo con cui l’uomo pretende di suggerire a Dio come dovrebbe comportarsi con l’uomo e come dovrebbe dargli la salvezza o il castigo.
Per costoro, farisei e scribi, i pubblicani e i peccatori sono persone ormai «perdute»: su di loro incombe il giudizio di Dio, e l’accoglienza calorosa che essi ricevono da Gesù è inspiegabile e contro ogni logica.
v. 3: Ed egli disse loro questa parabola
L'evangelista introduce dicendo: "questa parabola", ma poi ne seguono tre. Non abbiamo altre introduzioni. Forse Luca si è sbagliato nell'usare il singolare? Possiamo dedurre che l'Evangelista abbia voluto lasciare una indicazione, perché, sì tre parabole, ma un unico messaggio, unica parabola.
v. 4: Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una
La scena della parabola è pastorale, ma contiene una chiave di volta: la vita dell'uomo. Gesù fa un gioco di proporzioni, di numeri per esprimere il fascino della persona, la domanda di senso profondo che ha in se. In questo contesto l'ama proprio nel momento in cui lo smarrimento rischia di gettare nel nulla la sua esistenza.
Non basta una vita per capire la grandezza dell’uomo davanti a Dio.
Qui gioca il cuore del pastore che pone il suo sguardo sulla pecora mancante, la sua assenza per lui è un dolore irreparabile.
lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova
Tutto l’Antico Testamento è permeato da questo camminare di Dio alla ricerca dell’uomo. Un camminare che ha un nome: la misericordia.
Al pastore non gli basta la presenza delle novantanove; decide perdersi lui anziché perderne una. Questa sua scelta è accompagnata da due verbi: “lascia” e “va dietro” due decisioni apparentemente contrastanti, ma fortemente legate nella luce dell’amore. E' il folle amore di Dio. Le novantanove pecore, in fondo, sono i giusti, esortati a riconoscersi nella pecora smarrita. Infatti vagano ancora nel deserto. Quelle pecore, che non si ritengono perdute, staranno nel deserto fino a quando scopriranno il loro male: la mancanza di misericordia. Allora incontreranno il medico che non è venuto per i sani ma per i malati.
vv. 5-6: Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle
Era usanza del pastore, che alla pecora smarrita spezzasse la gamba, perché imparasse a non smarrirsi. Questo pastore invece non rompe la gamba, ma se la carica sulle spalle.
L'amore trionfa nel ritrovare l’uomo e rivela il volto di Dio contemplato nel volto di Gesù, un Dio che di sua iniziativa, mosso da null'altro che da un folle amore, esce in Gesù dalla sua distanza per dire ai distanti da lui che egli è semplicemente innamorato di loro, e che la loro vicinanza lo rende felice.
va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta».
Luca è l’evangelista della gioia ed invita a gioire. Quest'invito stupisce e stupisce ancor più perché rivolto non da chi è tornato alla vita, ma da Colui che nel ritrovare ci rivela le ragioni di questa vita.
Giunge a casa solo l’unica pecora perduta e ritrovata. Le altre novantanove restano fuori, come il fratello maggiore nella parabola del figlio prodigo.
Gli amici, i vicini sono i giusti, i primi chiamati al banchetto, che hanno rifiutato. Sono i farisei e gli scribi che si distanziano da chi è proteso ad accogliere tutti i peccatori. Ai primi invitati, che nella loro sufficienza, si sono autoesclusi, il Signore dice: “apri la tua bocca, la voglio riempire” (Sal 81,11).
v. 7: Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Il versetto fa il passaggio da perduta a convertita. In realtà la pecora non si è convertita, è stata semplicemente ritrovata, proprio perché perduta, ritrovata da colui che ha avuto amore per essa.
I novantanove giusti sono coloro che stanno ancora fuggendo da Dio. Chiusi nel proprio io e gonfi di morte: sono fuori dall’Eden.
v. 8: Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova?
Qui inizia una seconda parabola: la moneta perduta. Gesù porta una donna come esempio del suo comportamento. Una scena banale in una povera casetta palestinese. Una donna perde una delle dieci monete che conservava con cura, legate alla benda attorno alla fronte e alla nuca, e costituivano i beni che aveva ricevuto in dote dal padre. Per cercarla deve accendere la lampada, perché non c'è molta luce nell'unica stanza senza finestra della sua casa.
Con tre verbi: accendere, spazzare, cercare viene sottolineato lo sforzo della ricerca. L'uso della scopa si spiega in una casa con poca luce: questo permette il ritrovo della moneta sentendo il suo tintinnio.
v. 9: E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: "Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto".
La gioia espressa e condivisa è più coerente qui che non nel racconto precedente. La gioia è condivisione comunitaria e riflette la dimensione Trinitaria.
Di questa dimensione, ognuno è chiamato ad essere un raggio dell'unica luce di Cristo riflessa sul volto della Chiesa.
v. 10: Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
La conclusione è simile a quella del v. 7. Manca un confronto con i "giusti". La gioia è vista come espressione della salvezza presente e non solo futura come al v. 7.
Cosa significa gioia dinanzi agli angeli di Dio? Due gli orientamenti: la gioia che Dio condivide con la corte celeste; oppure che gli angeli sono visti come testimoni della Sua gioia.
In conclusione, la parabola è un messaggio di speranza già pronunciato dal profeta Isaia con queste parole: “Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani!” (Is 49,16). “Tu sei prezioso ai miei occhi, e io ti amo!” (Is 43,4).
Ognuno è invitato a capire e vivere questo grande amore di Dio esteso a tutti, anche a quelli che secondo il nostro pensiero non sono meritevoli di tale amore.
v. 11: Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Ecco l’inizio della terza parabola: un uomo e due figli: uno maggiore e uno minore. Al tempo di Luca, il maggiore rappresentava le comunità venute dal giudaismo; il minore le comunità venute dal paganesimo.
In questo versetto tre sono i personaggi: un uomo con due figli. È la storia di sempre. È Dio, che nel corso della lettura si rivelerà insieme padre e madre, legge e amore. Il numero due indica l'inizio di una moltitudine ma i due figli indicano la totalità degli uomini; peccatori o giusti, per lui siamo sempre e solo figli, per questo ha compassione di tutti (Sap 11,23) e non guarda i peccati.
v. 12: Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
C'è una giovinezza che manifesta una certa agitazione, che manifesta un atteggiamento molto frequente anche oggi perché dice al padre: “dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. È il peccato della pretesa autosufficienza.
Ciò che colpisce in questa prima parte del testo è il “silenzio” del Padre. Un Padre rispettoso della tua libertà, che si “annulla” di fronte alla tua scelta e divide le sue sostanze. Dividere le sostanze é già un atto di misericordia pretendere tanto e per di più con i1 Padre ancora in vita, è un palese atto di ribellione, impensabile per la cultura orientale. Qui il figlio si dimostra già un “avventato” uno “scapestrato”. E la legge era molto dura nel reprimere un tale atteggiamento (cfr. Dt 21,18-21).
Il figlio vuole auto-gestire il grande dono della vita, ma ora muore perché lontano dalla fonte della vita: il Padre! Alle porte del caos più totale ha però un bagliore di luce: “Rientrò in se stesso e disse” (15,17). È la conversione? È il pentimento? Difficile dire, perché il cammino che si compie verso il Padre non sempre ha un inizio di chiarezza, di luminosità, ma comporta un chiarimento “strada facendo”.
L’importante è iniziare con umiltà. Assumersi le nostre debolezze, farne una scala verso il Padre e il Padre ci sorprenderà.
vv. 13-16: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.
Questo figlio, che non sopporta la presenza del padre va in un paese lontano, cioè in un “paese pagano”. Lontano vuole dire lontano da suo padre, non avere più sue notizie. Può fare quello che vuole e l’evangelista descrive questo sua vita così: in modo dissoluto, fino a trovarsi nel bisogno. E la condizione di questo ragazzo diventa così grave al punto che è costretto a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, e a pascolare i porci.
Il porco è un animale immondo, non viene allevato da ebrei; andare a pascolare i porci deve essere il massimo del degrado, peggio di così non poteva finire. E la parabola vuole dire questo: il figlio scende al punto più basso della sua vita: mangiare gli alimenti dei porci.
Questo vuole dire: da figlio è diventato servo; l’autonomia che lui cercava non l’ha in realtà conquistata. E questo è un tema costante della riflessione profetica: quando Israele si illude di trovare la sua libertà negli idoli, in realtà trova semplicemente la schiavitù. In Geremia si ricorda l’esperienza di Israele così descritta: “Poiché già da tempo hai infranto il tuo giogo, hai spezzato i tuoi legami e hai detto: Io non servirò!” (Ger 2,20a).
Il “giogo”, i legami, sono evidentemente quelli della legge di Dio, quelli dell’Alleanza, quindi queste parole sono affermazioni di autonomia: “io non ho legge, io sono legge a me stesso”. “Infatti sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero verde ti sei prostituita” (Ger 2,22b). La libertà per Israele, l’emancipazione dai legami della legge, è essenzialmente questo: è la prostituzione della idolatria.
v. 17: Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Si noti come in questo monologo, Luca non esprime grandi sentimenti di pentimento; è una conversione a sé, più che al Padre, intuisce il vero proprio interesse.
“salariati...di mio padre”. Lo considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio. Instaura il paragone con i salariati. Ha ancora una falsa immagine del Padre. La fame gli fa capire che s’è sbagliato nel valutare le cose; è l’inizio di un cammino. Dice un antico proverbio ebraico: «Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono».
Il figlio rientra in se stesso cioè prende coscienza della abiezione in cui è finito, di quanto profondo sia il peccato, dell’esperienza di degrado nella sua vita. Ha fatto esperienza del peccato come schiavitù. Chiunque fa il peccato, dice Gesù nel Vangelo di Giovanni, è schiavo del peccato. Può illudersi di avere raggiunto una libertà perché non ha più una legge di Dio che orienti i suoi comportamenti, ma in realtà quel peccato a cui si è consegnato è diventato il suo padrone, è diventato il suo dio, il suo re; un dio e un re che sono tiranni. A differenza del Signore.
vv. 18-19: Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati».
Il figlio minore si è allontanato da casa perché pensava che suo padre fosse un tiranno; ritorna a casa con la speranza che suo padre sia un padrone, lo tratti come un padrone tratta i suoi servi. La conversione del figlio in realtà non è una grande conversione, perché non ritorna per amore di suo padre, ma ritorna per fame, ritorna con il desiderio di saziarsi, di potere vivere in un modo meno disagiato di quello attuale. Non gli dispiace di aver fatto soffrire suo padre.
“non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. La conversione non è un percorso facile, anzi è impossibile che l'uomo ritorni a Dio con le sue sole forze interiori; del resto, senza che noi lo desideriamo, Dio non ci converte a sé: perciò è indispensabile che il nostro desiderio e il desiderio di Dio si incontrino; poi l'amore del Padre farà il resto.
Sulla via del ritorno il giovane figlio aveva preparato mentalmente un discorso, nel quale, con atteggiamento umile, si riconosceva colpevole; forse anche noi pentiti, sulla via del ritorno a Dio, abbiamo preparato un discorso ma al Padre le nostre parole non interessano: come nella parabola, egli ha fretta di far festa, ha fretta di tenerci stretti nel suo abbraccio e di riconoscersi nel nostro volto, un volto di figlio che ha i tratti del volto del Padre.
v. 20: Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Se fin d'ora abbiamo parlato del figlio adesso subentra il padre in una scena travolgente. Il padre qui è ben altro, non aspetta al varco l’indegno per rinfacciarli una colpa senza scuse, previene ogni suo atto di pentimento. Per capire, l'evangelista usa per noi dei verbi: i verbi dell'amore.
“lo vide”. Per quanto lontano il Padre lo vede sempre; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista (Sal 139,11). L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una madre verso il figlio malato (cfr. Is 49,14-16; Ger 31,20; Sal 27,10; Os 11,8).
“si commosse”. È il verbo che definisce la figura del padre. “Commosso” vuole dire: “gli si sono mosse dentro le viscere”. Letteralmente “fu colpito alle viscere”. L'evangelista Luca attribuisce a questo padre i sentimenti di una madre, e si collega cosi alla tradizione biblica, dove Dio ha sovente atteggiamenti materni verso Israele.
In questo verbo abbiamo l'aspetto materno della paternità di Dio. È la qualità di quel Dio che è misericordia. In Lc 6,36 Dio ci è presentato come “padre misericordioso”, cioè insieme come padre e come madre (Luca usa l'aggettivo “oiktìrmon” che traduce l'ebraico “rahamin”, che indica il ventre, l'utero).
“correndo si gettò al suo collo”. C'è una corsa del padre che termina in uno slancio che lo fa letteralmente “cadere addosso” al figlio. Anche Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli, si getta sul collo di Israele (Gen 46,29). Questo gettarsi al collo interrompe l'idea del figlio. Il padre è stanco di avere dei servi invece che dei figli. Almeno il lontano che torna gli sia figlio. Il peccato dell'uomo è di essere schiavo invece che figlio di Dio. Segno di questo è il “bacio”. Segno del perdono (cfr. 2Sam 14,33). Questi sono gesti che nell'Antico Testamento indicano il perdono e la riconciliazione il segno che la comunione d’amore che c’era prima, è stata immediatamente ristabilita.
vv. 21-22: “non sono degno di esser chiamato tuo figlio...”. È un fardello che si aggiunge al fardello già esistente nella vita del figlio: essere figlio non è questione di dignità o di merito; è un dato di fatto. Il padre può essere libero nel mettere al mondo il figlio, ma nell’essere figlio non c’è libertà; non si sceglie né di nascere né da chi. Il figlio minore non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e gratuito; pensa non avendola meritata, di rinunciare alla sua paternità.
La conversione non è diventare "degni" o almeno "migliori" per meritare la grazia di Dio; la conversione è accettare Dio come un Padre che ama gratuitamente.
“Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare...”. Il padre prende subito l’iniziativa: non permette al figlio di terminare la sua confessione; non dice nulla al figlio, ma l’interruzione nella dichiarazione da parte del figlio, indica che l’aspetto importante della parabola, non è la conversione più o meno sentita del figlio, ma piuttosto l’accoglienza e la misericordia del padre.
Il vestito più bello è la veste migliore, quello riservato agli invitati, che è anche l’abito liturgico della cerimonia e il vestito dei salvati. È l’immagine e la somiglianza di Dio, gloria e bellezza originale che riveste l’uomo con la sua dignità con la sua autorità (l'anello al dito) (cfr. Gen 41,42; Est 3,10; 8,2; Gc 2,2). Che gli ridona la figliolanza, gli ridona la libertà di figlio (i sandali ai piedi; lo schiavo non porta sandali).
Questa della gioia di Dio nel perdonare è il nocciolo più originale del messaggio biblico-cristiano. Altri annunciano di Dio la potenza, altri la giustizia, altri l'ordine...: noi cristiani annunciamo che la potenza di Dio è l'amore e la misericordia, che egli sa vincere il male col bene, che Dio è amore e perdono onnipotenti.
v. 24: “Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. È il canto alla vita del figlio ritrovato, della relazione nuova, filiale e fraterna. I termini "morte e vita" lasciano intuire che la sua gioia deriva da una relazione che si era spezzata prima e ora è reintegrata in un contesto di libertà. I verbi "perdere e ritrovare" collegano questa parabola alle altre due precedenti nelle quali si parla della pecora e della dramma perduta e poi ritrovate. Anche in queste due parabole compare l’ordine di rallegrarsi e far festa.
vv. 25-30: Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo».
Chi è il figlio maggiore? Nella Bibbia il maggiore è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto ma anche nella vita di tutti i giorni, il figlio maggiore è colui che vive nel giusto o che crede di essere nel giusto e va in cerca dei ripari: “chiamò... domandò”. Il giusto non sa nulla della gioia di Dio, anzi gli è sospetta e per questo indaga minuziosamente, interroga un servo per sapere cosa sta accadendo.
Egli si indignò, e non voleva entrare.
Il verbo usato per descrivere il figlio maggiore è si arrabbiò. Il suo arrabbiarsi è giustificato da un ragionamento che ha una logica stringente, ma il ragionamento suppone che il padre sia un padrone e che i figli siano dei salariati, perché questo è il discorso: “io ti servo da tanti anni (…) non ho mai avuto un capretto”.
Quale rapporto abbiamo con Dio? Quello del salariato o quello della gratuita, dell'amore? Il figlio maggiore ha mantenuto sempre quel rapporto del “do ut des” col Padre; cioè un rapporto da salariato a datore di lavoro, ha sempre ricevuto quello che gli spettava come stipendio, ma niente di più di quello che va al di là del gratuito.
Il figlio maggiore è il rappresentante di una religiosità seria e impegnata ma di scambio, la religiosità dove Dio è datore di lavoro e l’uomo è un operaio, per cui secondo il lavoro che l’operaio compie ha diritto ad un salario corrispondente. Tutto quello che non entra in questo sistema di scambio economico e preciso, diventa incomprensibile e “non si vuole entrare” nell'amore del Padre.
Suo padre allora uscì a supplicarlo.
C'è un'azione del Padre che è uguale per tutti: la consolazione. C'è l'azione di Dio che si muove sempre per primo. Dio consolò Israele mediante i profeti, fino al Battista che “consolava ed evangelizzava” (Lc 3,18), chiamando alla conversione.
Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso».
Paziente, quel Padre che non ha ascoltato l’umiliazione penitente del secondogenito, ascolta ora le accuse del primogenito. Il figlio maggiore, nel breve dialogo che ha col padre mostra tutto il dramma della sua chiusura. Si è fatto un’idea del padre e da questa non cambia. Non riconosce il padre come suo padre né il figlio di suo padre come suo fratello. Il figlio elenca i suoi meriti - “ti servo ... non ho trasgredito” - con l’unica preoccupazione di affermare che non ha mai trasgredito alcun ordine. Non è questo il tipo di rapporto che dobbiamo avere col Padre nella ricerca egoistica del proprio io o interesse (“un capretto”).
È facile puntare il dito: “il figlio tuo”. Il primogenito rifiuta di dare il nome di «fratello» al prodigo ma non gli contesta il nome di «figlio» in rapporto al padre. Di colpo, il padre del figlio indegno non gli sembra più neppure suo padre; parla di lui come di un padrone al cui servizio lavora come schiavo: “Ecco, io ti servo da tanti anni” (come uno schiavo: douléuô. Cfr. v. 29). Se il secondogenito si augurava di divenire, a casa del padre, un servo ben pagato, il primogenito si considera come uno schiavo verso il quale il padrone non ha alcun debito di riconoscenza. La comprensione che egli ha del rapporto padre-figlio non è migliore di quella del fratello.
vv. 31-32: Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo;
In questo versetto, il padre cerca di far entrare nella logica dell’amore e della festa colui che è rimasto sempre impigliato nell’orizzonte del puro dovere, della sola osservanza di una religione rigida che esclude qualsiasi sentimento, gioia e festa e soprattutto perdono. Lo chiama: Figlio! E gli manifesta la cosa più importante della religione: “tu hai un padre, tu sei sempre con lui, con questo padre, nel suo cuore, nelle sue attenzioni. Tu non sei uno schiavo come tu ti definisci, ma un figlio che gioisce di tutto ciò che ho e che sono come padre. Vieni, abbracciami, baciami ed entra nella festa del ritrovamento del tuo fratello. Perché, tu hai un fratello, non sei solo e disperato; come hai un padre, una casa, un focolare attorno al quale gioire e fare festa”.
ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.
Il padre non rinnega il comportamento tenuto nei confronti del secondogenito e riconferma la sua gioia. La sollecitazione all’allegria e alla festa con cui si chiude il racconto, rimanda al finale delle due parabole precedenti in cui si assicura la gioia celeste per il peccatore convertito (Lc 15, 7.10).
La Parola del Padre ci conduce a deciderci a morire ai nostri schemi mentali, alla nostra religione fatta di leggi ed entrare in una religione imperniata sull’amore per cui il padre accoglie il figlio ribelle e il figlio-schiavo. Senza condizioni, perché sono suoi figli e basta.
La parabola non rivela la reazione del figlio maggiore, non dice se è entrato o no a far festa. Volutamente Gesù lascia le cose in sospeso: ricordando che la parabola è rivolta in primo luogo a farisei e scribi, è un appello a loro: volete fare come il figlio maggiore, essere invidiosi dei peccatori che si convertono? Volete o no entrare alla festa di Dio? Volete continuare a non capire la mentalità, il cuore di Dio? In definitiva, a Gesù sta a cuore far intravedere ai suoi ascoltatori di ieri e di oggi, peccatori e presunti giusti, il modo con cui Dio si rapporta alle persone: ogni uomo, anche se peccatore, rimane per Dio sempre un figlio, proprio come succede nella parabola.
La parabola possiamo concluderla così: "Figlio, ritorna anche tu!". E il vangelo non dice se il figlio ascoltò la voce del padre: forse questo silenzio è giustificato dal fatto che la risposta deve essere ancorata in noi e data da noi!

La Parola illumina la vita
Tre sono le realtà perdute in questo brano: la pecora, la moneta, il figlio. Tu andresti dietro a una di queste?
In me ci sta lo stesso atteggiamento del Padre?
Vivo una religiosità da schiavi cioè la religiosità della paura? O vivo la religiosità del salariato, la religiosità dello scambio?
In quale dei due figli mi ritrovo? Perché? 

Pregare
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio;
un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi. (Sal 50).

Contemplare-agire
Ripeti spesso e vivi oggi la Parola: “Mi indicherai il sentiero della vita” (Sal 15,11).