sabato 2 gennaio 2010

Lectio divina su Gv 1,1-18

II DOMENICA DOPO NATALE (ANNO C)

Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi

Lectio divina su Gv 1,1-18


Invocare
Padre di eterna gloria, che nel tuo unico Figlio ci hai scelti e amati prima della creazione del mondo e in lui, sapienza incarnata, sei venuto a piantare in mezzo a noi la tua tenda,
illuminaci con il tuo Spirito, perché accogliendo il mistero del tuo amore, pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed eredi del regno. Amen.

Leggere
1 In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
2 Egli era, in principio, presso Dio: 3 tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
5 la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
6 Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
7 Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
8 Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
9 Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
10 Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
11 Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
12 A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,13 i quali, non da sangue
né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
14 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
15 Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me
è avanti a me, perché era prima di me».
16 Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
17 Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
18 Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

- Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Meditare
La liturgia della Parola di questa domenica ci invita a inserire il mistero del natale appena celebrato nell'ampio quadro della storia della salvezza. Torniamo quindi a meditare sullo stesso vangelo che abbiamo ascoltato e meditato nel giorno di Natale.
C'è un'esigenza diffusa di rinascita; tutti ne sentiamo il bisogno. Non è possibile che le cose continuino come sono. Eppure continuiamo a dire che è impossibile cambiare le cose e ancor più difficile trasformare il cuore degli uomini.
Il prologo di Giovanni è costituito dai primi 18 versetti del Vangelo. All'interno di questo testo di carattere poetico, ci sono alcune sezioni (vv. 6-8 e il v. 15), quelle che parlano di Giovanni Battista, che hanno un andamento più prosaico e che, se lette in greco, sembrano meno ritmiche delle altre. Questi versetti sono il riferimento ad un uomo all'interno di un inno molto solenne che vuol parlare di un Essere infinitamente più importante di un uomo, il Lógos, di cui si afferma che addirittura è uguale a Dio. E questo crea una certa sproporzione. Ciò ha fatto sorgere l'ipotesi che i passi riguardanti il Battista siano delle aggiunte, probabilmente dallo stesso Evangelista, fatte in epoche successive alla prima stesura.
Il prologo di Giovanni, che la Liturgia della Chiesa ci propone come Vangelo del giorno di Natale, deve condurci a celebrare questa festa in modo più pieno e profondo, superando quella riduzione folcloristica e sentimentale, alla quale si indulge facilmente, ma che non lascia una grande traccia nella fede e nella vita dei fedeli, anche nella nostra.
vv. 1-2: “In principio...”. La costruzione grammaticale greca utilizzata per esprimere "In principio" è en archè; per correttezza sintattica dovrebbe esserci l'articolo: en te archè, cioè "Nel principio". Molti esegeti hanno osservato che l'articolo non è stato messo di proposito perché tale espressione vuole alludere alla stessa parola che si adopera all'inizio della Genesi per dire "In principio". Nella Genesi "In principio" è scritto barescít, ebraico, che in questo caso ha la stessa costruzione del greco. La conclusione è che chi ha cominciato il quarto Vangelo ha voluto iniziare ripetendo in greco la stessa parola che c'è in ebraico nella Genesi. La Genesi inizia con: "In principio Dio creò il cielo e la terra..." (Gen 1,1) il Vangelo di Giovanni inizia con: "In principio era il Lógos"
Si vuole allora creare un'identità temporale fra le due situazioni e dire: "In principio, quando Dio creava il mondo, il Lógos era".
Il termine lógos letteralmente vuol dire "parola". Ma nel mondo greco voleva dire anche "pensiero"; nel linguaggio degli stoici era usato per indicare il "pensiero divino" che è impresso nel mondo e lo governa, che si riflette poi anche nel pensiero degli uomini dando loro la possibilità di conoscere l'ordine del mondo. Il termine lógos è anche inteso nel mondo greco come "legge che regola l'universo", "principio generale" dell'unità del cosmo, "anima che rende vivo il tutto". Grazie al Lógos l'universo è come un grande organismo; e nell'uomo si manifesta come "ragione".
Già nell’Antico Testamento è presente l’immagine della Parola (Verbo) di Dio e della Sapienza che è in Lui, per mezzo della quale ogni cosa è stata creata; essa esiste da sempre ed è stata inviata sulla terra per rivelare i misteri della volontà divina e ritornerà a Dio dopo aver compiuto la sua missione. Anche Giovanni, nel suo stupendo Vangelo, riprende gli stessi concetti (forse in modo più poetico) rilevando, però, che la Sapienza (la Parola di Dio) è il Verbo fatto carne, il Cristo, la rivelazione dell’Emmanuele, il Dio con noi, il Figlio “diverso” anche se “uguale” al Padre.
“il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Il Verbo “era”, anzi “era Dio”: la rivelazione anticotestamentaria non ha trovato nella razionalità umana una categoria migliore per esprimere la realtà di Dio di quella dell'essere. A Mosè Dio si dette a conoscere dicendo “Io sono” (Es 3,14). Gesù applicherà a se stesso questa definizione (cfr. Gv 8,58; 13,1) dichiarandosi uguale a Dio (5,18).
Il "presso Dio" in greco è scritto con pròs (pros) e l'accusativo, che indica movimento, che non indica una situazione statica, "fermo presso Dio". Non è stato usato parà, che indica uno "stare accanto", ma pròs che esprime una vicinanza più intima (che però non è fusione), rivolto verso Dio, in relazione a Dio. Nei Proverbi, quando si parla della Sapienza, di lei si dice: "All'inizio il Signore mi ha generata, primizia della sua attività, origine delle sue opere, ... Io ero accanto a lui come bambino ed ero la sua gioia quotidiana, alla sua presenza, mi divertivo di continuo". (Prv 8,22). Vi è quindi identità fra Lógos e Sapienza.
v. 3: “tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”. In greco "tutto" sta a significare "tutte le singole cose", "ogni cosa". L'espressione "è stato fatto" in greco è riportata con eghèneto che significa letteralmente "nascere", "divenire", ed è lo stesso verbo usato in Genesi 1,1 per descrivere la creazione nei vari giorni.
Quel bambino, apparso a Betlemme, si è fatto figlio nostro, ma era prima di noi. Lui è da sempre. Ha preso una “carne”, un corpo, una storia come la nostra: è diventato come noi, ma in realtà noi siamo come lui. Lui era prima di noi. Detto in parole povere, quando Dio ha creato l’uomo e la donna li ha creati secondo un prototipo, un modello: suo Figlio. Dio ci ha fatti così perché così sarebbe dovuto apparire in mezzo a noi il suo Verbo, la sua Sapienza. È straordinaria questa verità! Quando ci sentiamo fatti male, quando pensiamo che il creato sia fatto male, “non lasciamoci cadere le braccia” e reagiamo con forza: se tutto è stato fatto per mezzo di lui, niente può essere stato fatto male. Ciò che va male dipende dalla nostra incapacità o non volontà di essere fedeli al progetto di Dio.
L'espressione "per mezzo" non ci fa capire in che modo "tutto è stato fatto". Il "per mezzo" può essere tradotto "attraverso": in questo caso il Lógos è ridotto a puro strumento esecutivo materiale. Ma può essere tradotto anche in modo che il Lógos venga visto come intelligenza animata. Quindi il "per mezzo" è una metafora molto ampia che concretamente non spiega nulla.
Poi vi è di nuovo una ripetizione, che in ebraico è detta parallelismo sintetico: "...e senza di lui niente è stato fatto".
Si ribadisce la stessa cosa aggiungendo un piccolo particolare. Il "senza" dovrebbe essere interpretato come: "indipendentemente da Lui". Cioè tutto quello che esiste passa attraverso un'opera del Lógos, che non è precisata quale sia, ed è in contatto con il Lógos.
Si può dire, allora, che tutto ciò che esiste – dall’angelo al piccolo vermiciattolo, direbbe sant’Agostino – tutto porta in sé la traccia della Parola di Dio. È perché esiste questa traccia profonda di senso che il mondo può essere studiato, capito, espresso nelle parole della conoscenza – con le parole della scienza, ad esempio, ma anche con tutte le parole che esprimono e dirigono con intelligenza l’esistenza quotidiana delle persone.
vv. 4-5: “Tutto ciò che esiste in Lui, era vita...”. In questi versetti l'evangelista non fa altro che mettere in risalto le due parole “vita” e “luce”. Sono due nozioni teologiche fondamentali in Giovanni.
La parola greca usata qui per dire "vita", vuol mettere in risalto la natura e la qualità del nome usato ed è corrispondente a “vita eterna”. Questa vita in senso assoluto, che nel vangelo viene identificato con Gesù, era “la luce degli uomini”.
Il termine “luce” anzitutto esprime la rivelazione personale e storica di Dio che salva. Sta ad indicare la capacità per gli uomini di poter conoscere e di capire, è cioè un aiuto intellettuale.
Vita e luce indicano insieme la pienezza dell'esistenza umana e la rivelazione-dono del suo senso più profondo. La vita diviene luce che ne illumina il senso: la luce a sua volta è potenza di vita, quando viene accolta nella fede.
Nel v. 5 viene sottolineato la sorte della luce in mezzo alle tenebre. “... e le tenebre non l’hanno vinta”. La vita eterna è la luce degli uomini e questa luce splende là dove invece c'è l'oscurità dell'ignoranza. L'ignoranza degli uomini non ha soffocato questa luce, "le tenebre non l'hanno sopraffatta".
Giovanni dice che la presenza universale della Parola di Dio è vita e luce per ogni essere umano. Ma la maggioranza delle persone non percepiscono la Buona Novella della presenza luminosa della Parola di Dio nella loro vita. La Parola viva di Dio, presente in tutte le cose, brilla nelle tenebre, ma le tenebre non la compresero.
vv. 6-8: “Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni...”. Viene qui presentata la figura del Battista e in particolare la sua missione di “inviato da Dio” e di testimone della luce. Testimone, rendere testimonianza è espressione chiave di tutta la teologia giovannea.
Giovanni Battista venne per aiutare la gente a scoprire questa presenza luminosa e consolatrice della Parola di Dio nella vita. La testimonianza di Giovanni Battista fu così importante che fino alla fine del primo secolo, epoca in cui fu scritto il Quarto vangelo, c'erano ancora persone che pensavano che lui, Giovanni, fosse il Messia! (At 19,3; Gv 1,20). Per questo, il Prologo chiarisce dicendo: "Giovanni non era la luce! Venne per rendere testimonianza alla luce!".
vv. 9-10: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo...”. Un versetto di non facile interpretazione. Infatti, secondo la costruzione greca, si potrebbe tradurre sia "la Luce vera, quella che illumina ogni uomo, stava venendo nel mondo", sia "la Luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo". Allora l'atto di venire nel mondo potrebbe essere attribuito sia alla "Luce" che ad "ogni uomo".
Per capire guardiamo alla nostra vita. Guardiamo a noi immersi in un mondo di luci false, che ti fanno vedere la realtà con un riverbero spesso distorto e falso. Veniva nel mondo la luce che illumina, quella che porta speranza, che riscalda. Veniva nel mondo questa luce impercettibile, inafferrabile, che illumina il cammino, che ti permettere di incontrare in modo autentico il volto di chi ti vive accanto, senza provare vergogna per quello che sei.
Veniva nel mondo la luce su un mistero impossibile: la perfezione di Dio e la debolezza umana, la sua immensità e la nostra infinita piccolezza uniti in una persona.
“eppure il mondo non lo ha riconosciuto”. La risposta negativa, paradossalmente negativa, si ripete lungo il Vangelo. “E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage. Chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Gv 3,19-21).
La scena più emblematica si ha quando Gesù guarisce un cieco nato, il quale trova anche la luce della fede, mentre i farisei che credono di vedere restano ciechi (cfr. Gv 9). Gesù conclude: “Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi” (9,39). E’ il peccato più grave; con esso ci chiudiamo alla possibilità di esser illuminati e salvati. Non si tratta di un dualismo cosmologico o metafisico; si tratta di una situazione esistenziale escatologica, ossia decisiva e radicale. Chi resta nelle tenebre, si perde per sempre (cfr. Gv 12,35).
v. 11: “Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”. Il pensiero di Giovanni scende verso maggiori particolari: dal cosmo al mondo degli uomini, al mondo ebraico. Qualche commentatore però non accetta che il versetto 11 si riferisca agli ebrei, ma a tutti gli uomini. Sembra però un tentativo di escludere un'asperità contro gli Ebrei di cui però il Vangelo di Giovanni è pieno. Anzi Giovanni identifica la categoria degli Ebrei come simbolo per "non credenti"; quando dice "i Giudei", vuol dire gli "increduli". Se però nel versetto 11 si vede il parallelismo sintetico, il versetto 10 e l'11 dicono la stessa cosa, sebbene in maniera differente: quindi la "sua gente" sono il "mondo". Tra l'altro il testo ebraico non dice "gente", ma dice "venne fra le sue cose", che vuol dire "venne in casa propria", nella sua proprietà.
L'Evangelista ci parla di accoglienza e riconoscimento, ed ognuno di noi sa quanto
esser riconosciuti e sentirsi accolti, sia importante nella vita di ogni uomo, di più, quanto riconoscimento e accoglienza siano fondamentali, perché l'esistenza fiorisca e scorra serenamente in tutta la sua ricchezza.
vv. 12-13: “A quanti però lo hanno accolto...”. Solo questa espressione fa pensare che non tutti non lo hanno accolto ma che a chi l'ha accolto ha dato il potere di diventare "figlio di Dio", e spiega cosa vuol dire "figlio di Dio".
Accogliere è un termine che esprime la fede in senso passivo: è accogliere una persona in casa con tutto ciò che significa: accettare cioè la persona e il messaggio che porta. Abbiamo davanti un verbo che tende a personalizzare la fede.
Ora a coloro che lo accolgono, il Logos-Luce da il potere di “diventare figli di Dio” (distinti dal Figlio di Dio).
Dinanzi alla luce sfolgorante dell’Amore di Gesù, gli uomini si dividono in “figli della luce” e “figli delle tenebre”, secondo che vivono nella luce di Cristo, oppure nelle tenebre di satana. Si riconoscono dalle loro opere buone o malvagie. La presenza della luce provoca la scelta e quindi la separazione.
E’ Gesù stesso che avverte: “Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce” (Gv 12,36).
“Se un tempo eravate tenebre, ora siete luce del Signore, comportatevi perciò come figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre. Ma piuttosto condannatele apertamente… Per questo sta scritto: “Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà” (Ef 5,8-14). Queste ultime parole provengono da un inno battesimale: il battesimo è inteso come illuminazione, come essere svegliati a vita nuova. Una vita che, nella luce del Signore, eliminerà le opere infruttuose delle tenebre e produrrà i frutti della bontà, giustizia, verità.
La Parola entra nella persona e fa che questa si senta accolta da Dio come figlia, come figlio. È il potere della grazia di Dio.
v. 14: “e il verbo si fece carne...”. Questo è il centro focale del Prologo. Con il termine carne viene definito l'uomo nella sua condizione di debolezza e di destino mortale ecco perché diciamo “si fece” e non “divenne”. Il Verbo-Sapienza-Figlio eterno di Dio, Dio egli stesso, si fece “carne”, ossia umanità fragile e limitata, contingente, storicamente e culturalmente condizionata. Non si tratta unicamente di “natura” umana, ipostaticamente unita alla divinità: si tratta anche di giudaicità, di appartenenza a un ambiente e a un’epoca, di corporeità e mortalità, di affettività e socialità. La Lettera agli Ebrei lo dice con estrema chiarezza: «eccetto il peccato, si è fatto in tutto simile ai fratelli» (Eb 2,17; 4,15).
“e venne ad abitare in mezzo a noi”. Il verbo usato per "abitare" è "si attendò". Questa scelta probabilmente non vuole riferirsi alla precarietà della condizione umana, ma al fatto che nel Lógos incarnato si verifica quello che era avvenuto nella Tenda dell'Incontro (Es 27,21; 28,43) nell'accampamento degli Ebrei, nella quale si manifestava la Gloria del Signore. Ora la tenda dove Dio dimora con noi è Gesù "pieno di grazia e di verità!". Gesù venne a rivelare chi è questo Dio che è presente in tutto, fin dall'inizio della creazione.
Gli Atti degli Apostoli lo descrivono così: «è entrato e uscito in mezzo a noi» (1,21), «passò beneficando» (10,38). Si tratta del Gesù della storia, quello che raggiungiamo attraverso i Vangeli e la cui traccia non è scomparsa.
L’incarnazione del Verbo non va limitata al momento della sua nascita «secondo la carne» (Rm 1,3; cfr. Gal 4,4): abbraccia la totalità della sua esistenza terrena e, in un certo senso, si estende nel tempo e nello spazio, se è vero che Cristo Risorto è «il vivente» (Lc 24,5), non solo, è ma presente oggi nel mondo perché la Chiesa è il suo corpo e noi siamo le sue membra (cfr. 1Cor 12,12ss).
“e noi abbiamo contemplato la sua gloria...”. Anche qui si coglie un’eco dell’AT: la «gloria, doxa» (eb. kabôd) di Dio risplende negli eventi salvifici (cfr. Es 16,7 ecc.) ed è come una luce che manifesta la sua presenza (cfr. Es 24,16), prima nel santuario del deserto (cfr. Es 40,34s), poi nel tempio di Gerusalemme (cfr. 1Re 8,10s). Per il quarto evangelista la gloria del Verbo incarnato si manifesta in particolare nei “segni” (cfr. 2,11), che a loro volta simboleggiano la sua attività salvifica come risorto (cfr. 1,50s; 13,31s). A nome degli altri discepoli, Giovanni qui afferma: «abbiamo contemplato la sua gloria»; nella Prima lettera dice in modo equivalente: «abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato il Verbo della vita» (1Gv 1,1).
La gloria di Cristo è quella “del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”.
L’espressione «grazia e verità, kháris kaì alétheia» viene da Es 34,6. Si tratta dell’amore misericordioso (eb. hesed) e della fedeltà (emet) di Dio nei riguardi di Israele. Il Verbo incarnato è la manifestazione più alta, piena e definitiva dell’amore del Padre. Lo dirà più avanti l’evangelista: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16s).
Il tema è ripreso nella Prima lettera di Giovanni. Dopo aver affermato che «Dio è amore», l’apostolo spiega:«In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,9s). Anche san Paolo riconduce la missione salvifica di Cristo all’amore del Padre per gli uomini (cfr. Rm 58; 8,32).
v. 15: “Giovanni rende testimonianza...”. Il versetto riprende la testimonianza del Battista, che si esprime con le parole di 1,30. Pur essendo cronologicamente dopo, il verbo precede in dignità il battista, perchè era prima secondo la presentazione innica del prologo; era infatti “in principio”.
vv. 16-17: Dopo la seconda digressione, viene ripreso il tema della kháris: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia», una “corrente ininterrotta di grazia” che dalla pienezza del Verbo incarnato scorre verso di «noi» (i credenti). L’evangelista istituisce un confronto tra Antico e Nuovo Testamento: «la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo».
Allo stesso modo san Paolo contrappone la grazia alla Legge alla «novità dello Spirito» (cfr. Rm 7,6). Ciò che il prologo afferma in modo sintetico, Gesù lo spiega più apertamente nel corso del Vangelo; per es. nell’ultimo giorno della festa delle Capanne, quando grida: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: “Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”». L’evangelista commenta: «Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (7,38-39). L’acqua e il sangue che escono dal costato di Gesù crocifisso (19,34) simboleggiano appunto il fiume di grazia che scaturisce da lui.
v. 18: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”. Durante l’ultima cena uno dei discepoli chiederà a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gesù gli risponde: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse» (14,7-11).
Il miglior commento è quello della costituzione dogmatica Dei Verbum: «Dopo aver Iddio, a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, “alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Mandò, infatti, il suo Figlio, il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18), Gesù Cristo, dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini” (Diogneto, 7,4), “parla le parole di Dio” (Gv 3,34) e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cf Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito santo, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna» (DV 4).
Concludiamo dicendo che questo versetto evoca la profezia di Isaia secondo cui la Parola di Dio è come la pioggia che viene dal cielo e non ritorna ad esso senza aver svolto la sua missione qui sulla terra (Is 55,10-11). Così è il cammino della Parola di Dio. Viene da Dio e discende tra di noi nella persona di Gesù. Mediante l'obbedienza di Gesù, realizza la sua missione qui sulla terra. Nell'ora della sua morte, Gesù consegna lo spirito e ritorna al Padre (Gv 19,30). Comprese la missione che aveva ricevuto.

Il Vangelo nel pensiero dei Padri della Chiesa
E' venuto il Signore, maestro di carità, pieno egli stesso di carità, a «ricapitolare la parola sulla terra» (Rm 9, 28), come di lui fu predetto, e ha mostrato che la Legge e i Profeti si fondano sui due precetti dell'amore. Ricordiamo insieme, fratelli, quali sono questi due precetti. Essi devono esservi ben noti e non solo venirvi in mente quando ve li richiamiamo: non si devono mai cancellare dai vostri cuori. Sempre in ogni istante abbiate presente che bisogna amare Dio e il prossimo: «Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente»; e il prossimo come se stessi» (cfr. Mt 22, 37. 39). Questo dovete sempre pensare, meditare e ricordare, praticare e attuare. L'amore di Dio è il primo come comandamento, ma l'amore del prossimo è primo come attuazione pratica. Colui che ti dà il comando dell'amore in questi due precetti non ti insegna prima l'amore del prossimo, poi quello di Dio, ma viceversa.
Siccome però Dio tu non lo vedi ancora, amando il prossimo ti acquisti il merito di vederlo; amando il prossimo purifichi l'occhio per poter vedere Dio, come chiaramente afferma Giovanni: «Se non ami il fratello che vedi, come potrai amare Dio che non vedi?» (cfr. 1 Gv 4, 20). Se sentendoti esortare ad amare Dio, tu mi dicessi: «Mostrami colui che devo amare», io non potrei che risponderti con Giovanni: «Nessuno mai vide Dio» (Gv 1, 18). Ma perché tu non ti creda escluso totalmente dalla possibilità di vedere Dio, lo stesso Giovanni dice: «Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio» (1 Gv 4, 16). Tu dunque ama il prossimo e guardando dentro di te donde nasca quest'amore, vedrai, per quanto ti è possibile, Dio.
Comincia quindi ad amare il prossimo. «Spezza il tuo pane con chi ha fame, introduci in casa i miseri senza tetto, vesti chi vedi ignudo, e non disprezzare quelli della tua stirpe» (cfr. Is 58, 7). Facendo questo che cosa otterrai? «Allora la tua luce sorgerà come l'aurora» (Is 58, 8). La tua luce è il tuo Dio, egli è per te la luce mattutina perché verrà dopo la notte di questo mondo: egli non sorge né tramonta, risplende sempre.
Amando il prossimo e prendendoti cura di lui, tu cammini. E dove ti conduce il cammino se non al Signore, a colui che dobbiamo amare con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente? Al Signore non siamo ancora arrivati, ma il prossimo l'abbiamo sempre con noi. Aiuta, dunque, il prossimo con il quale cammini, per poter giungere a colui con i quale desideri rimanere. (Agostino, «Trattati su Giovanni», Tratt. 17, 7-9; CCL 36, 174-175)

- Alcune domande per la riflessione personale e il confronto:
Che cosa è stato il Natale per noi, per me? Solo o prevalentemente chiasso, distrazione? Un momento di serenità e dolcezza sentimentale, ma senza un coinvolgimento serio e profondo? Un evento che ha cominciato a cambiarci la vita? Un incontro autentico con la persona del Salvatore Gesù oppure un dono buttato via, un’occasione sprecata?
E’ riuscito Giovanni a contagiarci un po’ della sua scoperta, del suo stupore gioioso di fronte a tale Avvenimento? E’ riuscito a comunicarci un po’ della sua “passione” d’amore per Gesù?
Riconosco in Gesù la piena manifestazione dell’amore del Padre? Lo ringrazio per questo?
Siamo “compaesani” di Dio, lui vive tra ne nostre case. Anche nel nostro cuore?

Pregare
Raccogliamoci in silenzio ripercorrendo la nostra preghiera e rispondiamo al Signore con le sue stesse parole (dal Sal 147):

Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.

Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.

Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi.

Contemplare-agire
Nel silenzio del cuore incontra il Signore. Ripeti spesso e vivi questa Parola: In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo.