venerdì 25 dicembre 2009

Lectio divina su Lc 2,41-52

SANTA FAMIGLIA DI GESÙ, MARIA E GIUSEPPE (ANNO C)

Beato chi abita nella tua casa, Signore

Lectio divina su Lc 2,41-52


Invocare
O Padre, nell'esemplarità della santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe ci educhi a vivere un vero mistero di comunione. Inonda la nostra vita con il tuo Spirito perché sappiamo vivere in atteggiamento di ascolto adorante al tuo volere per personalizzare sempre meglio il misterioso progetto di salvezza che hai predisposto per ognuno di noi. Sorretti dalla tua divina potenza potremo crescere verso la pienezza del volto del tuo Cristo per noi morto e risorto. Amen.

Leggere
41I genitori di Gesù si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; 43ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero le sue parole. 51Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

- Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Meditare
Siamo di fronte alla prima pagina del Vangelo che in modo assai forte e quasi scandaloso ci presenta la somma libertà di Gesù nei confronti della sua famiglia. Certo non è l'unico aspetto che può essere considerato da questa pagina biblica. Ma è una verità importante per noi e può gettare molta luce sui nostri rapporti famigliari.
La pericope di Luca, tradizionalmente intitolata “Gesù tra i dottori”, è l’unico episodio della vita del Signore, tra la nascita e l’inizio della vita pubblica, raccontato dai vangeli canonici (gli apocrifi invece sovrabbondano di narrazioni fantasiose, evidentemente per rispondere a una insopprimibile curiosità devota). Luca riempie il lungo silenzio degli anni nascosti di Gesù con due frasi molto simili che descrivono sommariamente il suo svilupparsi come uomo (2,40. 52). Incorniciato dai due ritornelli sta il racconto del viaggio a Gerusalemme; il suo scopo è come quello di pilone di sostegno di un ponte dall’arcata troppo lunga: interrompe il salto sul vuoto e proietta profeticamente verso gli sviluppi futuri. Dodici anni indica l’uscita dalla fanciullezza, l’inizio della maturità. Questo primo viaggio di Gesù a Gerusalemme prefigura l’altro viaggio, “l’esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme” (Lc 9,31), il cammino verso la croce, che occupa la seconda parte del Vangelo di Luca (in 9,51 è sottolineata con forza la svolta nella narrazione).
v. 41: “I genitori di Gesù si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua”. Tre volte all'anno c'erano celebrazioni che richiamavano a Gerusalemme i pellegrini, secondo il comando del Signore: "Tre volte all'anno farai festa in mio onore: Osserverai la festa degli azzimi...Osserverai la festa della mietitura...la festa del raccolto, al termine dell'anno, quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. Tre volte all'anno ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio" (Es 23,14-17). La Santa Famiglia di nazaret fece più di quanto esigeva la legge. Infatti anche Maria compiva il pellegrinaggio, sebbene non fosse obbligatorio per le donne. Gesù viene dunque condotto a Gerusalemme affinché si abitui a osservare la Legge.
v. 42: “Quando egli ebbe dodici anni...”. A dodici anni, Gesù attraversa quella cerimonia che si chiama Bar Mitzvah (significa letteralmente: figlio del comandamento). È la cerimonia della maturità religiosa; da quel momento il ragazzo può leggere la Parola di Dio nella sinagoga, solennemente, nelle riunioni della comunità di Israele. Quindi diventa religiosamente maggiorenne.
“...il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero”. La festa pasquale durava sette giorni. La partenza avveniva solo dopo il secondo giorno festivo. Alla fine della settimana Giuseppe e Maria partirono e si viaggiava suddivisi in gruppi di parenti e conoscenti Gesù si sottrae all'attenzione premurosa e si ferma nel tempio, nella casa di suo Padre. E nel dialogo e nel rapporto che si sviluppa con i suoi genitori emerge una paternità divina che prevale sui rapporti umani.
v. 44: "Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, poi si misero a cercarlo tra parenti e conoscenti".
I suoi genitori non possono non pensare che lui sia nel "cammino con gli altri", così come le donne al sepolcro cercheranno tra i morti colui che è vivo (Lc 24.5). Ma "le sue vie non sono le nostre vie, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri" (Is 55.8). Gesù non si trova tra i "parenti " secondo la carne perché i sui parenti "sono coloro che ascoltano la Parola di Dio" (Lc 8,21). Non si trova neppure tra i "conoscenti" (che può essere inteso anche come "quelli che conoscono") perché il suo mistero, che solo il padre conosce è nascosto a coloro che sanno e rivelato ai bambini (Lc 10,21).
v. 45: “non avendolo trovato, tornarono in cerca...”. Tutto il cammino di Maria è essenzialmente di distacco da Gesù. Il distacco vuol dire che pian piano il Bambino appare come colui che non appartiene a lei, di cui lei è la madre che ha generato non per se stessa, ma per Dio e per il mondo, perché faccia la volontà di Dio e compia la sua missione nel mondo. Quello che è significativo è questo: il distacco di Gesù da Maria non vuole dire per Maria una perdita di significato e di fecondità, anzi, vuol dire che questa fecondità diventa ancora più grande. In realtà, la maternità di Maria viene dilatata, affiliata e diventa maternità ecclesiale. Ogni distacco che ci viene chiesto nella vita è solo l’occasione per una dilatazione della nostra vita. Di fronte al distacco una persona ha l’impressione che la vita diventi più stretta, misera, povera, perché perdiamo qualcosa di bello. La legge del vangelo è che ogni distacco, in realtà, arricchisce la vita, perché: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).
v. 46: “Dopo tre giorni...”. Almeno cinque volte nel Vangelo e un’altra negli Atti, Luca usa l’espressione “tre giorni” o “terzo giorno” in relazione alla morte e resurrezione di Gesù. Poiché l’episodio di “Gesù tra i dottori” è ricco di segnali e riferimenti alla vita adulta di Gesù, non è azzardato vedere nei tre giorni di ricerca di Gesù da parte di Maria e Giuseppe una allusione alla scomparsa di Gesù per tre giorni nella morte e al suo ritrovamento nella risurrezione.
La vicenda di Maria è quella di ogni credente che “trova Gesù nella casa del padre dopo tre giorni”. Il terzo giorno nella teologia neotestamentaria è il giorno della risurrezione. Ritrovare Gesù nella casa del padre dopo tre giorni è, quindi, lo sbocco ultimo della fede, è un annuncio pasquale, è un invito a cercare sempre Gesù dove realmente è.
“lo trovarono nel tempio, seduto...”. Il tempio di Gerusalemme è la meta finale del viaggio di predicazione di Gesù, è la “casa di preghiera” (Lc 19,46), il luogo il cui negli ultimi giorni della sua vita “insegnava ogni giorno” (Lc 19,47) e “annunciava la parola di Dio” (Lc 20,1). Nel tempio si conclude il vangelo di Luca, con gli Undici che vi “stavano sempre lodando Dio” (24,53) e ancora nel tempio troviamo numerose volte gli apostoli agli inizi della Chiesa (Atti 2,46; 3,1ss; 5,20ss). Facendoci vedere Gesù giovinetto che sta seduto nel tempio ad insegnare, Luca anticipa il punto d’arrivo della missione del Signore e il punto di partenza della missione della Chiesa.Gesù è trovato seduto e non, come di consuetudine per i discepoli, ai piedi dei rabbini: li ascolta, li interroga e risponde alle loro domande. Gesù è un fanciullo sapiente e intelligente riguardo alle Sacre Scritture; in lui è nascosta e presente la volontà di Dio. Gesù al tempio preannuncia il suo ruolo di maestro escatologico venuto a esporre in maniera perfetta la volontà del Padre, così come il ritrovamento dopo tre giorni nella casa di suo Padre è un accenno che prefigura il mistero pasquale, la risurrezione al terzo giorno alla destra del Padre.
v. 47: “E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte”. Il dialogo con i dottori del tempio, in cui Gesù “li ascoltava e li interrogava”, sta a significare il legame di continuità tra l’Antico Testamento e il Vangelo, il loro continuo interrogarsi e rispondersi. Nello stesso tempo, però, lo stupore che coglie i maestri di Gerusalemme “per la sua intelligenza e le sue risposte” mostra la superiorità della parola di Cristo su quella custodita dai dottori e testimonia la sua conoscenza profonda della Legge. Più avanti sarà chiamato e ritenuto maestro (10,25) e il popolo si meraviglierà della sua dottrina e dichiarerà che egli insegna come uno che ha autorità e non come gli scribi (Mt 7,28ss)
v. 48: "al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: figlio perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre ed io angosciati ti cercavamo".
“Al vederlo i suoi rimangono colpiti” (Lc 24,22) e gli raccontano tutto il loro dolore della perdita e l'ansia della ricerca.
Le parole di Maria sono l'espressione spontanea del dolore e dell'angoscia di quelle lunghe ore di ricerca. Maria da vera madre, parla a Gesù come se fosse un bambino ma in realtà è un ragazzo. Comincia ad appianarsi il mistero che circonda Gesù. Egli ha la coscienza che supera quella di ogni altro uomo.
v. 49: “devo occuparmi delle cose del Padre mio...”. La prima parola che i vangeli riportano sulla bocca di gesù è una parola di altissima coscienza di sé, una parola che indica il corso della sua vita. Gesù ha la coscienza di essere Figlio di Dio secondo la Scrittura: “Proclama di possedere la conoscenza di Dio e si dichiara figlio del Signore” (Sap 2,13).
Gesù chiama Dio “Abba” “Padre”. C’è questo: “Padre mio” che sembra incominciare a costituire una forza di attrazione più grande che non la famiglia, la casa di Nazaret e i suoi genitori; c’è qualcosa che pian piano allontana Gesù. È vero che dopo Gesù ritorna con i genitori e “stava loro sottomesso”, però, intanto, questa piccola frattura si è manifestata. Quella piccola frattura diventerà più grande al momento del ministero pubblico, perché, a questo punto, Gesù si distacca dalla famiglia e incomincia un nuovo modo di vivere: incomincia a fare il predicatore, quindi a spendere la sua vita per il compimento di un disegno del Padre su di Lui. Gesù ha percepito la sua vita è dominata da un “io devo” che guida la sua vita consacrata al regno di Dio (4,43). È un’attrazione fortissima nei confronti della sua vita, tanto da diventare tutto l’orizzonte del suo mondo e la motivazione delle sue scelte.
v. 50: “Ma essi non compresero le sue parole”. Maria e Giuseppe non compresero le parole del figlio. Maria è cresciuta nella conoscenza del Figlio, per mezzo dell'angelo, dei profeti e della Sacra Scrittura. Ma qui, nonostante tutto rimane un enigma. Per Maria e Giuseppe, non comprendere l’agire del loro figlio equivale a non comprendere l’agire di Dio. Ogni rivelazione presenta nuovi enigmi: la nascita in una mangiatoia, la sua infanzia, la sua vita coi parentie col popolo, il suo fallimento, la sua morte in croce. Abbiamo sempre bisogno della parola rivelatrice e della meditazione su Gesù e sugli eventi salvifici. Anche se Gesù ci fosse del tutto familiare, rimarrebbero ancora oscurità e misteri.
Maria e Giuseppe come i discepoli di Emmaus Maria e Giuseppe non capirono che bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua Gloria (24,26) Maria e Giuseppe sono un modello perché si mantengono costanti e fedeli alla loro vocazione anche quando non comprendono.
v. 51: “stava loro sottomesso...”. Gesù ritorna a Nazaret e sta sottomesso i genitori; questi non sanno qual è la missione di quel bambino; lui la conosce, sa quello che loro non sanno, però si sottomette a loro. Ma si sottomette a loro con una missione nuova e grande, quella missione che lo pone in un rapporto unico ed esclusivo con Dio.
L’esperienza cristiana è fondamentalmente un fatto di sottomissione, a partire dalla grande subordinazione a Dio. Un restare soggetti che si concretizza nell’obbedienza alla Parola, ove “obbedire” significa “ascoltare la voce ponendosi sotto”. Mediante l'obbedienza si prepara alla glorificazione dopo il battesimo. «E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui» (At 5,32). Una sottomissione, e in questo sta il paradosso della esperienza cristiana, concepita come evento di liberazione e di fruttificazione. Come la terra produce il suo frutto non rifiutandosi all’acqua e al suolo, così la creatura che non si pone a lato (= disobbedienza) della Parola inviata da Dio viene sottratta alla molteplicità degli idoli e dischiusa ai frutti dello Spirito. In fondo, la sottomissione è una legge fondamentale della vita cristiana.
“Sua madre serbava...”. Maria capisce ora che anche per lei deve iniziare quel faticoso itinerario di fede che le farà scoprire il mistero del suo Figlio e che le farà perdere sempre più il Figlio come possesso per averlo come dono salvifico di Dio ai piedi della croce. Maria inizia a comprendere che il suo distacco dal Figlio non è segno di lontananza ma di vicinanza perché con la fede ella entra sempre più nel progetto di salvezza che il Cristo sta attuando.
“...nel suo cuore”. Questi avvenimenti riempiono lo spirito di Maria e diventano luce della sua vita. Nella storia ci sono i segni del compimento della volontà d Dio, ma sono velati e possono essere colti solo attraverso una rivelazione di luce interiore. Parte essenziale della vita spirituale è il silenzio, perché solo nel silenzio si può cogliere il mistero delle cose. La superficie delle cose la si coglie immediatamente perché bastano i sensi degli occhi o degli orecchi. Ma il mistero delle cose e degli avvenimenti richiede uno svelamento. Maria ha custodito e amato “queste cose” nel suo cuore e pian piano dentro di lei le hanno rivelato il disegno di Dio: il loro pieno e vero significato.
San Luca pensa a maria, poiché segue tutto fin dal principio (cfr. 1,1-4).
v. 52: "E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini" .
L'evangelista conclude annotando che Gesù "progrediva in sapienza e in statura e in grazia presso Dio e uomini".
L'evangelista Luca usa per Gesù l'esperienza del giovane Samuele: “Andava crescendo e avvantaggiandosi presso Dio e presso gli uomini” (1Sam 2,26). Infatti “tutti i profeti, quanti parlarono da Samuele in poi, anche essi annunziarono questi giorni (di Gesù Cristo)” (At 3,24; cfr. 13,20).
Gesù però deve attendere che giunga la sua ora, l'ora in cui la crescita sarà compiuta; allora si presenterà come il profeta che supera tutti i profeti per la sapienza della sua conoscenza di Dio.
Adesso sappiamo qual è la sua sapienza: compiere la volontà del Padre e resistere a Gerusalemme. La sua statura è quella che assumerà crescendo nel cuore dei credenti fino alla consegna definitiva del Regno al Padre. La sua grazia è il suo essere insieme presso il Padre e presso di noi.

Il Vangelo nel pensiero dei Padri della Chiesa
Di tanto in tanto Gesù nel tempio interrogava i dottori, di tanto in tanto rispondeva. E sebbene fossero straordinarie le sue domande, tuttavia molto più straordinario è ciò che egli rispondeva. Se vogliamo dunque anche noi ascoltarlo, se vogliamo che egli proponga anche a noi delle domande che lui stesso risolverà, supplichiamolo, e cerchiamolo con tutta la fatica e il dolore: così potremo trovare colui che cerchiamo. Infatti, non a caso sta scritto: io e tua madre addolorati ti cercavamo. E’ necessario che colui che cerca Gesù, lo cerchi non in modo negligente e trascurato e con impegno saltuario, come lo cercano alcuni che perciò non riescono a trovarlo. Per parte nostra invece diciamo: “Ti cerchiamo addolorati” (Origene, Commento al vang. di Luca).

È necessario che coloro che cercano Gesù lo cerchino non in modo negligente e trascurato, è con impegno saltuario, come lo cercano alcuni che perciò non riescono a trovarlo. Per parte nostra invece diciamo: Ti cerchiamo addolorati. (…) Dove lo trovano dunque? Nel tempio; lì si trova infatti il Figlio di Dio. Quando anche tu cercherai il Figlio di Dio, cercalo dapprima nel tempio, affrettati ad andare nel tempio, e lì troverai il Cristo, Verbo e Sapienza, cioè Figlio di Dio (Origene, Omelie su Lc 18.5-19.6).

Apprendiamo, figli, ad essere sottomessi ai nostri genitori. Qui il più grande si sottomette al più piccolo. Infatti, vedendo che Giuseppe è più anziano di lui, Gesù lo onora del rispetto che si deve a un padre, dando a tutti i figli un esempio di sottomissione al genitore, oppure, se sono orfani, a coloro che detengono l’autorità paterna. Ma perché parlo dei genitori e dei figli? Se Gesù, il Figlio di Dio, è sottomesso a Giuseppe e Maria, io non dovrei essere sottomesso al vescovo che Dio mi ha dato per padre? Non dovrei essere sottomesso al sacerdote preposto dalla scelta del Signore? Penso che Giuseppe comprendeva che Gesù era a lui superiore, pur essendogli sottomesso; e, sapendo che il sottoposto era maggiore di lui, gli dava ordini con timore e moderazione. Rifletta ciascuno su tutto questo: spesso un uomo di poco valore è posto al di sopra di persone migliori di lui, e talvolta accade che l’inferiore vale più di colui che sembra comandarlo. Se chi detiene elevate dignità comprenderà tutto questo, non si gonfierà d’orgoglio a causa del suo rango più alto, ma saprà ce il suo inferiore può essere migliore di lui, nello stesso modo in cui Gesù era sottomesso a Giuseppe (Origene, Omelie su Lc 20,5).

- Alcune domande per la riflessione personale e il confronto:
Prova a cogliere per la tua vita il culmine e il centro del brano?
Cosa o chi diventa più importante ad un certo punto della mia esistenza?
Sono capace sull'esempio di Gesù a vivere sottomesso?
Mi preoccupo spesso di più dei progetti sui figli, che di quelli di Dio?
Vi è nella mia famiglia il senso del sacro?
Vi è ancora quel rispetto al piano di Dio, che è in ogni uomo, e quindi una attenzione da parte dei genitori perché questo "piano", attraverso la fede, la preghiera, una pedagogia fondata sulla Parola di Dio prenda corpo?

Pregare
Raccogliamoci in silenzio ripercorrendo la nostra preghiera e rispondiamo al Signore con le sue stesse parole (dal Sal 83 / 84):

Quanto sono amabili le tue dimore,
Signore degli eserciti!
L'anima mia languisce
e brama gli atri del Signore.

Il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente.
Anche il passero trova la casa,
la rondine il nido,
dove porre i suoi piccoli,
presso i tuoi altari,
Signore degli eserciti, mio re e mio Dio.

Beato chi abita la tua casa:
sempre canta le tue lodi!
Beato chi trova in te la sua forza
e decide nel suo cuore il santo viaggio.
Passando per la valle del pianto
la cambia in una sorgente,
anche la prima pioggia
l'ammanta di benedizioni.

Cresce lungo il cammino il suo vigore,
finché compare davanti a Dio in Sion.
Signore, Dio degli eserciti, ascolta la mia preghiera,
porgi l'orecchio, Dio di Giacobbe.

Contemplare-agire
Nel silenzio del cuore incontra il Signore. Ripeti spesso e vivi questa Parola: io devo occuparmi delle cose del Padre mio.

lunedì 21 dicembre 2009

Lectio divina su Gv 1,1-18

25 dicembre: NATALE DEL SIGNORE (anno C)

Tutta la terra ha veduto la salvezza del Signore

Lectio divina su Gv 1,1-18


Invocare
Padre santo, tu che sei la Luce e la Vita, apri i miei occhi e il mio cuore perché io possa penetrare e comprendere la tua Parola.
Manda lo Spirito Santo, lo Spirito del tuo Figlio Gesù sopra di me, perché io accolga con docilità la tua Verità
Donami un animo aperto e generoso, perché nel dialogo con te io possa conoscere e amare il tuo Figlio Gesù per la salvezza della mia vita e possa testimoniare il tuo vangelo a tutti i miei fratelli. Per Cristo nostro unico Signore. Amen.

Leggere
1 In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
2 Egli era, in principio, presso Dio: 3 tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
5 la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
6 Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
7 Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
8 Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
9 Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
10 Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
11 Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
12 A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,13 i quali, non da sangue
né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
14 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
15 Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me
è avanti a me, perché era prima di me».
16 Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
17 Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
18 Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

- Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Meditare
“Fratelli carissimi il Signore nostro Gesù Cristo, di tutte le cose eterno creatore, oggi nascendo da una madre si è fatto nostro salvatore. È nato per noi oggi nel tempo liberamente, per introdurci eternamente alla vita del Padre. Dio si è fatto uomo, perché l'uomo diventasse Dio. Perché l'uomo mangiasse il pane degli angeli, il Signore degli angeli si è fatto uomo" (Sant'Agostino).
Il Quarto Vangelo si apre con questo straordinario brano poetico, che è un inno alla Parola di Dio che si rivela e opera nel mondo. È una sintesi meditativa di tutto il mistero del natale, perché il bambino di Betlemme è la rivelazione di Dio, la verità di Dio e dell'uomo, e riflettendo su questo evento siamo in grado di capire chi è colui che nato e chi siamo noi. I primi tredici versetti, che costituiscono la prima parte dell’inno, ci presentano il Verbo dalla sua origine: siamo nell’ambito della relazione tra le Persone Divine. La Parola di Dio, ad un certo momento, entra in contatto col mondo, con l’umanità, e cioè con noi, incarnandosi. Tale evento viene cantato in una irruzione di gioia al versetto 14, in cui comincia la seconda parte del Prologo (vv. 14 al 18). Tuttavia questo dono di Dio, totalmente gratuito, molti non lo vedono o lo rifiutano. Ci sono però anche coloro che se ne accorgono e lo accettano. Per mezzo dell’accoglienza del Verbo è possibile diventare figli di Dio: la «buona novella» della figliolanza divina si trova proprio al centro dell’inno (vv. 12-13).
v. 1: “in principio...”. Così inizia il vangelo di Giovanni riconducendoci all'AT dove i temi di creazione, di luce e tenebre sono ripresi dalla Genesi (1,1). Questo non è però, come nella Genesi, il principio della creazione, perché la creazione viene nel v. 3. Il principio si riferisce piuttosto al periodo prima della creazione ed è una designazione, più qualitativa che temporale, della sfera di Dio.
“era il Verbo”. Qui troviamo l’affermazione di un’esistenza che precede questo inizio: fin da questo principio «esisteva» il Verbo. Parlando di preesistenza, san Tommaso spiega nella Summa Teologica che si vuole esprimere metaforicamente la verità che il Verbo è Dio.
«Verbo»: è la «Parola», cioè il mezzo attraverso il quale ci si esprime. Il testo afferma che in principio, al momento dell’atto creatore, c’era «la Parola», cioè la comunicazione che Dio fa di se stesso. Nell’ambiente filosofico greco questo termine indica la «parola che porta un senso», che lo svela pienamente. Nell’ambiente giudaico, la parola, «dabar», come tale appartiene alla sfera di Dio; essa rivela l’essenza stessa di Dio.
Il verbo greco utilizzato (‘en: essere, esistere) è tradotto in italiano, per rendere l’idea, aggiungendo un già: All’inizio (della creazione) già c’era il Verbo. L’imperfetto esprime in modo particolare l’esistenza.
La definizione di Verbo per la persona di Gesù è specifica degli scritti giovannei che la contengono sia in forma assoluta (Gv 1, 1.14) sia con delle specificazioni (Verbo della vita in 1Gv, 1, 1 e Verbo di Dio in Ap 19,13). Giovanni riformula l’identità del Verbo alla luce di categorie veterotestamentarie.
“Il Verbo era presso Dio”. La preposizione greca pròs esprime l’idea di innanzi, presso, in relazione a e viene usata per indicare l’esistenza del Logos in relazione a Dio. Si può intendere: Era in compagnia di Dio (dando a pròs un senso statico); oppure: Era verso Dio, cioè in relazione con Dio (in questo caso si conserva a pròs il suo senso di moto).
La TOB preferisce questa seconda traduzione. Nella formulazione originale pròs tòn thèon l’articolo (tòn) specifica che si tratta del Padre. Il Verbo partecipa della sua vita come persona distinta orientata a lui.
“Il Verbo era Dio”. Il Verbo era e non si può indagare in che modo la Parola giunse all'esistenza. Più avanti Gesù dirà: “Io Sono”.
In queste pochissime parole Giovanni descrive un accenno al mistero della relazione Padre-Figlio, nell’unicità di Dio. Theòs én o’ logos: l’uso di theòs, senza articolo, esprime la partecipazione alla natura divina. Il Logos possiede la natura divina pur non essendo il solo ad averla.
v. 2: “Egli era in principio presso Dio”. Con la ripresa dell’espressione «in principio» l’attenzione del lettore viene orientata nuovamente verso la creazione. Giovanni ripetendo che il «Verbo era presso Dio» sembra voler sottolineare che l’atteggiamento fondamentale del Verbo, il suo essere verso Dio, dovrà servire da modello rispetto a tutto ciò che nascerà mediante la «Parola».
v. 3: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui...”. Dopo aver presentato il Verbo nella sua relazione immediata con Dio, ora lo sguardo è concentrato sulla relazione del Verbo con il mondo. Già l’AT collegava la creazione del mondo alla parola di Dio o alla sapienza divina. Tutta l’attività creatrice è opera del Padre e del Figlio.
“è stato fatto per mezzo di Lui”: affermando che tutto avviene per mezzo del Verbo, l’evangelista vuole dire anche che tutto mediante il Verbo prende senso.
“Senza di lui nulla è stato fatto”. Attraverso quest’espressione negativa viene rafforzato il pensiero precedente. Il mondo sia fisico che umano riflette Dio Padre in quanto è fatto secondo il Figlio di Dio incarnato, che è appunto l’immagine di Dio. Pensiamo all’armonia, alla bellezza…
Il verbo egèneto esprime molto bene la creazione di ogni cosa dal nulla. Viene usato in Gen 1 per descrivere la creazione. È sostanzialmente diverso da ‘én, ed è tipico di tutto ciò che non è Dio.
v. 4: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. È importante collegare questo versetto con quanto detto prima: dopo aver dichiarato la presenza efficace del Verbo in tutto ciò che è stato fatto, l’opera del Verbo viene ora caratterizzata dal dono della vita.
Possiamo tradurre questo versetto così: Ciò che aveva avuto origine in lui (nel Verbo) era vita. La vita di cui Giovanni parla nel suo vangelo non è semplicemente quella fisica (biòs), ma una vita qualitativamente superiore e piena («zōē»). In altri passi del Vangelo viene anche identificata con Gesù stesso. L’identificazione di questa vita con la luce degli uomini nella riga seguente fa pensare che si intenda vita eterna.
“La luce”. Il Verbo, entrando in rapporto con gli uomini, manifesta ciò che egli è per essi, cioè la luce. Il Verbo risplende come luce di vita. Grazie al Verbo gli uomini vedono la luce che li guida alla pienezza della vita. Qui sono anticipate le parole di Gesù: «Io sono la luce del mondo, chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
v. 5: “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”. Tutta la frase è uno sguardo complessivo sull’opera del Verbo e dei suoi avversari. Giovanni medita sulla luce che è il Verbo nella sua funzione d’illuminare tutta l’umanità che giace nelle tenebre.
Con il termine “tenebra” s’intende prima di tutto il mondo degli uomini lontano da Dio, cioè non ancora illuminato dalla luce divina. Una traduzione di “tenebra”, in linguaggio esistenziale, potrebbe essere il disorientamento interiore, cioè quando si è confusi e non si sa dove e come andare. Tale disorientamento può diventare un sistema di vita, fino ad arrivare a non sapere più il vero perché delle cose, lasciandosi così trascinare dagli impulsi e dalle situazioni. Giovanni con queste poche parole, ci consegna un messaggio fondamentale: il non riconoscere Gesù fatto uomo fra noi, come senso ultimo della realtà, che dà valore ad ogni cosa è a tutti gli effetti un essere nelle tenebre, senza alcun punto di riferimento.
“La luce splende nelle tenebre”. La frase si presta a diverse interpretazioni. Possiamo leggervi un’allusione alle infedeltà d’Israele che i profeti hanno denunciato ripetutamente e sulle quali Dio trionfava sempre nuovamente. Inoltre abbiamo un’anticipazione degli eventi accaduti durante la vita di Gesù fino alla sua vittoria finale con la risurrezione.
“Le tenebre non l’hanno vinta”. Il verbo greco katalambànein è difficile da tradurre; si possono distinguere quattro tendenze tra i traduttori: “afferrare, comprendere”, “accogliere, ricevere, accettare”, “sorprendere, vincere”, “dominare”. Si può quindi intendere che gli uomini non hanno compreso la prima manifestazione del Verbo avvenuta nella creazione, ma anche che la luce sfugge ai loro tentativi di conquistarla e di dominarla.
vv. 6-7: “Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone...”. Letteralmente: ci fu. Questo non è l’én usato per la creazione nei vv. 3-4: Giovanni Battista è una creatura. Questa nota sul Battista ci fa scendere dal mondo soprannaturale e divino all’universo umano (“ci fu un uomo”). La differenza di tonalità colpisce il lettore ed è possibile che questo passo su Giovanni (come pure il versetto 15) sia stato introdotto più tardi per dissuadere i discepoli di Giovanni dal mettere questo grande profeta sullo stesso piano di Gesù. Tra i due c’è una differenza radicale che separa “colui che era fin dal principio, rivolto verso Dio” da quest’uomo, che è venuto da parte di Dio per essere testimone. Il Battista è un testimone della luce, ma non la luce stessa. Giovanni rende solo testimonianza alla luce davanti alle autorità giudaiche (1, 19-34), davanti al popolo d’Israele (1, 31-34) e davanti ai propri discepoli (1, 35-37). L’ultima volta che Giovanni è menzionato nel vangelo, è quando viene elogiato per essere stato un testimone fedele: “Tutto ciò che egli disse di Gesù era vero” (Gv 10,41).
v. 8: “Egli non era la luce...”. In 5,35 Gesù chiama Giovanni Battista “lampada”; ma Gesù stesso è luce. L’evangelista stima così tanto il Battista che parla di lui come l’intermediario autorizzato fra il Verbo e l’umanità.
Giovanni Battista deve testimoniare che colui che Israele attendeva era presente. Giovanni sa che Costui gli è superiore in dignità (1, 27).
Giovanni diventa «figura» di tutti i testimoni che nel corso della storia hanno ricevuto la missione di testimoniare nel mondo la presenza della luce divina: la sua figura e il suo messaggio assumono una portata universale.
v. 9: “Veniva nel mondo la luce vera”. Con questa strofa inizia un nuovo quadro della storia di Dio che si comunica, attraverso la rivelazione del Verbo, nella concretezza dell’incontro fra il Verbo-Luce e gli uomini. Abbiamo qui l'aggettivo “vero” che tornerà spesso nel vangelo: vero pane (6,32), vera bevanda (6,55), vera vita (15,1). Nell’uso ebraico, “vero” caratterizza in primo luogo l’ordine divino (cfr. 7,28; 17,3), che viene contraddistinto dall’illusione e dalla fallacia dell’ordine dell’uomo peccatore (cfr. Rm 3,4). Così Giovanni afferma che soltanto nella rivelazione avvenuta in Gesù, attraverso la sua Parola e il suo operare, viene data a tutti gli uomini l’autentica comprensione della loro esistenza. Il Verbo è qui qualificato come «luce vera». La posizione del Verbo è precisata non solo nei confronti di Giovanni, che era soltanto il testimone della luce, ma anche nei confronti di tutte le false luci che sarebbero apparse nel mondo: esse non sono altro che ingannevoli idoli, mentre solo il Dio vivente è veritiero.
La Parola di Dio «illumina ogni uomo»: con questa espressione Giovanni si riferisce a ciascuno uomo nella sua singolarità: il Verbo viene incontro a ciascun uomo nello scorrere del tempo.
v. 10: “Egli era nel mondo...”. Il Verbo era nel mondo: una presenza che è conseguente a quanto detto nel v. 9 (il mondo fu creato mediante il Verbo).
«Mondo» «kosmos»: è un termine molto importante; per tre volte viene ripetuto nei versetti 10-11, ma con sfumature diverse. Inizialmente Giovanni parla del mondo nel senso di «universo» creato da Dio, come era nel pensiero dei greci. Nella citazione successiva il termine allude non solo all’universo fisico, ma include il «mondo umano». In questi due riferimenti il mondo è usato in un senso decisamente positivo. Nel terzo riferimento si parla del mondo umano con un contenuto negativo, in quanto si allude al mondo sottomesso al potere delle tenebre e ostile alla missione e all’opera salvifica di Cristo.
In pratica ogni singolo uomo è posto nella condizione di accettare o meno la luce. L’accoglienza della luce, mediante la fede, porta la vita divina e la salvezza. Il «mondo» diventa «peccatore» soltanto dal momento in cui rifiuta la rivelazione di Cristo e non riconosce la gratuità del dono di Dio. Non viene data nessuna giustificazione del rifiuto di questa luce: c’è solo la costatazione del suo rigetto. L’affermazione del fallimento dell’incontro fra il Verbo e gli uomini non contraddice ciò che è stato dichiarato precedentemente, cioè che le tenebre non hanno arrestato la luce: all’evangelista interessa sottolineare il paradosso del rifiuto che la creatura oppone al suo Creatore.
v. 11: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”. La TOB traduce: È venuto nella sua proprietà, in casa propria… Verosimilmente Israele rappresenta storicamente l’umanità che tutta intera appartiene al Creatore. Il versetto vuole precisare ulteriormente la natura del rifiuto opposto al Verbo.
“Venne fra i suoi”. Quest’affermazione richiama alla presenza del Verbo nel mondo che egli ha creato. Il Verbo è venuto nella “sua proprietà”: il termine sottolinea una relazione speciale fra due individui o fra una persona e un gruppo. Possiamo richiamare alla mente le allusioni di Gesù circa la relazione che unisce il pastore alle sue pecore, per indicare il rapporto generato tra Lui stesso e i suoi discepoli. Dopo aver accennato al “mondo” in generale, Giovanni sembra che qui voglia ricordare il comportamento speciale di Dio verso il suo popolo eletto, particolarmente infedele.
v. 12: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio...”. Diventare figli di Dio implica una capacità che viene da Dio. È riferito agli uomini che hanno riconosciuto nel Verbo il principio della loro esistenza e il senso della loro storia, lasciandosi illuminare da lui.
«A quelli che credono nel suo nome»: la formula è stata applicata frequentemente a Gesù Cristo nel Nuovo Testamento; è un’espressione tipica dell’Antico Testamento che si riferisce a Dio.
“Egli ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Tutti i termini in questa frase hanno rilevanza. Ha dato: si tratta di un dono del Verbo all’uomo. Potere: il potere che dona a coloro che credono evidentemente non può trattarsi di una facoltà autonoma, come se il credente divenisse capace di procurarsi da sé lo stato di figlio di Dio. Possiamo sottolineare la dignità che comporta il divenire figli di Dio.
Nell’Antico Testamento l’espressione figli di Dio è usata normalmente al singolare. Da principio viene applicata esclusivamente al re oppure a Israele, in quanto popolo eletto, per indicare il legame particolare di protezione e di benevolenza che unisce a Dio chi è designato come suo «figlio». In questo passo i figli di Dio sono tutti gli uomini che credono in Dio, Israeliti o no.
v. 13: “Non da sangue”. L’uomo non diviene figlio di Dio con la procreazione carnale, come ci ricordano le parole del Battista: «Dio può suscitare da queste pietre dei figli ad Abramo» (Gv 8,37-39). E non avviene neppure in forza di un «volere della carne», cioè in forza del desiderio che ha la creatura mortale di sopravvivere alla morte attraverso la propria discendenza.
Possiamo pensare che c’è coincidenza tra l’azione dell’uomo che «accoglie» il Verbo e quella di Dio che «genera». Queste due azioni formano una cosa sola, nella diversità dei rispettivi ruoli. È importante tenere presente il passo precedente dove si diceva che il Verbo illumina ogni uomo. Ora infatti sappiamo che questa illuminazione, nella misura in cui viene accolta, produce la filiazione divina.
“Da Dio sono stati generati”. Il senso fondamentale è che la figliolanza divina è opera esclusiva di Dio. Attraverso le espressioni seguenti il ritmo dell’inno si costruisce in un crescendo. Con la triplice contrapposizione si vuole esaltare la grandiosità del fatto di nascere da Dio.
v. 14: “E il Verbo si fece carne...”. La parola “Carne” designa la natura umana nella sua debolezza e fragilità. senza cessare di essere Verbo, il Verbo entra nel tempo. Colui che esisteva da tutta l’eternità è entrato nel tempo e nella storia umana. Questo è il tremendo mistero dell’Incarnazione per cui la Parola eterna assunse la nostra identica natura umana, divenendo in tutto simile a noi, fatta eccezione per il peccato (Eb 4,15). Cioè in tutto, escluso ciò che era incomprensibile con la divinità. Questa è una delle affermazioni più incisive di tutto il vangelo.
“e venne ad abitare”. Letteralmente “Ha posto la sua tenda”. Per esprimere questo mistero, Giovanni ha deliberatamente scelto l’immagine biblica della tenda: “Ha posto la sua tenda in mezzo a noi”. Il vocabolo evoca la tenda (skenè) del deserto (Es 25, 8-9) costruita perché Dio potesse “abitare in mezzo a loro”. Il tempio di pietra di Sion (come si dirà esplicitamente in Gv 2, 18-22) è ora sostituito dalla “carne” di Gesù, cioè dalla sua corporeità e dalla sua esistenza storica che condivide con noi.
A partire dal versetto 14 la parola “Verbo” sparisce dal Vangelo. Ora che Giovanni ha definitivamente raggiunto il punto culminante della sua introduzione parlando della Parola divenuta carne, non la chiama più la Parola ma Gesù: il Vangelo è una testimonianza non alla Parola eterna ma alla Parola fatta carne, Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
v. 15: “Giovanni gli dà testimonianza e proclama...”. L’Inno si conclude con un’ulteriore testimonianza del Battista, che ribadisce il primato di Cristo che è “prima” di lui, anche se venuto cronologicamente “dopo” di lui nella storia umana. Si esalta poi la missione del Figlio di Dio presso l’umanità. Egli offre all’uomo soprattutto “la grazia e la verità". La missione della Parola nel mondo fu precisamente quella di porre gli uomini in grado di divenire figli di Dio, partecipi cioè della vita divina. Questo versetto riprende la testimonianza di Giovanni Battista, la cui missione nei confronti della luce è stata descritta nella prima parte del prologo. Adesso la sua testimonianza viene proclamata.
“Avanti a me”. Gesù Cristo è al di sopra di Giovanni. L’espressione ha una sfumatura qualitativa.
“Prima di me egli era”. Giovanni Battista, personaggio storico e ispirato, ha qui la funzione confermare a tutti che quest’uomo venuto «tra noi» (1,14) era precisamente il Verbo di cui si è parlato fin dall’inizio del prologo.
v. 16: “Dalla sua pienezza”. Tutti noi partecipiamo alla pienezza di grazia, propria dell’Unigenito di Dio. “Noi tutti”: non si vuole escludere nessuno. La comunità confessa la sua fede.
«Noi tutti abbiamo ricevuto…»: è un’affermazione giubilante di tutti quelli che hanno creduto in Cristo e perciò hanno la capacità di crescere nella loro realtà di figli di Dio.
“Grazia su grazia”. (Charis antì charitos): tradotto anche: “Amore in luogo di amore”; questa idea di sostituzione, come è stata sostenuta dai Padri greci, significa implicitamente lo hesed di una nuova alleanza in luogo dello hesed del Sinai. Il v. 17 sembra convalidarlo. Indica un’esperienza vissuta e cioè la capacità di ricevere dalla sovrabbondanza di Dio benevolenza-amore. Si vuole sottolineare non tanto un succedersi nel tempo cioè “grazia dopo grazia” quanto piuttosto un aumento in intensità: si tratterebbe di un accumulo di grazie, che rivela la continuità dell’azione di Dio nella storia.
v. 17: “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo”. La “Legge”, come parte integrante dell’alleanza, è tutto il complesso di istruzioni che Dio ha consegnato al suo popolo nell’Antico Testamento. La Legge si capisce come una benedizione di Dio: una guida per la vita e l’indicazione di una via. La grazia e la verità vengono abbinate come dono proprio dell’unigenito del Padre, Gesù Cristo stesso, fondatore della nuova alleanza, rivelazione del Padre.
Mosè e Gesù Cristo sono posti in parallelo: al dono della legge corrisponde il dono della verità in Gesù Cristo. Questa verità supera la legge, che è soltanto una sua manifestazione incompleta. Per Giovanni la Legge è già un dono di Dio, una grazia che si espande al mondo intero, tuttavia egli sottolinea la profondità della verità rivelata da Cristo: “in” e “mediante” Gesù Cristo, Figlio unico, Dio si rivela come Padre.
v. 18: “Dio, nessuno lo ha mai visto”. In tutte le esperienze religiose anche dell’Antico Testamento, troviamo il desiderio di vedere Dio faccia a faccia, ma, salvo eccezioni, quest’aspirazione deve attendere il cielo per potersi realizzare. Giovanni evidenzia che Cristo permette di superare l’impossibilità di vedere Dio.
“Il Figlio unigenito”. Il mediatore di questo accesso alla gloria è Gesù Cristo. Unigenito non soltanto per sottolineare che Gesù è lo stesso Figlio unico di Dio, ma anche che è lo stesso Verbo incarnato (1,1). Giovanni aggiunge che l’Unigenito è lui stesso «Dio»: Dio solo può parlare di Dio.
“Nel seno del Padre”. L’espressione sottolinea non solo la tenerezza e l’intimità dell’amore tra il Padre e il Figlio, ma anche la finalità del rapporto: «il Figlio unico è rivolto verso il cuore del Padre». Possiamo notare che, come nel v. 14, il termine Dio viene sostituito da quello di Padre.
“è lui che lo ha rivelato”. Soltanto il Figlio unigenito, che condivide senza limiti la vita del Padre, può condurre gli uomini alla conoscenza e alla vita. Con tutto ciò che è, che fa e che dice, Gesù sarà il rivelatore e l’espressione di Dio e si rivolgerà ai discepoli dicendo: Il Padre mio e il Padre vostro, il Dio mio e il Dio vostro (20,17).

Il Vangelo nel pensiero dei Padri della Chiesa
La festa che noi oggi celebriamo è la venuta di Dio tra gli uomini, perché noi possiamo accedere a Dio o, per meglio dire, ritornare a Dio, affinché, abbandonato l’uomo vecchio ci rivestiamo del nuovo; e come siamo morti nel vecchio Adamo, così viviamo in Cristo; infatti con Cristo nasciamo, siamo messi in croce, veniamo sepolti e risorgiamo… (Gregorio di Nazianzo, Oratio 38, 1 S. 4).

Dio, pertanto, non si prende semplicemente cura degli uomini ma, nel far questo, egli li ama davvero. Quest’amore poi è talmente grande da avere indotto Dio a stabilire come nostro medico e salvatore il suo Figlio unigenito, a lui consustanziale, generato prima dell’aurora, con il concorso del quale creò il mondo e a donarci, per mezzo suo il privilegio dell’adozione a figli di Dio (Teodoreto di Ciro, La Provvidenza Divina, 10).

Ebbene, ciò vale anche per il Verbo di Dio: non si è mai mosso da se stesso, eppure abitò tra di noi (Gv 1, 14); non ha subito alcun mutamento, eppure il Verbo si è fatto carne (Gv 1,14); il cielo non è rimasto mai privo della presenza di lui, eppure la terra ha accolto il celeste nel proprio grembo. Non pensare ad una diminuzione di divinità: non si trattò infatti di un passaggio da un luogo ad un altro così come potrebbe compierlo un qualsiasi corpo. Né è da ritenersi che la divinità, riversata nella carne, ne sia risultata in qualche modo alterata: ciò che è immortale, infatti, è altresì immutabile. Come può accadere, chiederai, che il Verbo di Dio non abbia assimilato i limiti caratteristici della dimensione corporale? Allo stesso modo come, rispondiamo, il fuoco diviene partecipe delle proprietà del ferro. Quest’ultimo, infatti, pur essendo scuro e freddo, una volta riscaldato dal fuoco divenuto incandescente, si riveste del medesimo aspetto del fuoco: benché esso diventi risplendente, però, da parte sua non annerisce affatto il fuoco né, venendo infiammato, raffredda la fiamma. Il medesimo discorso può farsi a riguardo della carne umana del Signore: questa, infatti, divenuta partecipe della divinità, non la corruppe minimamente con la propria debolezza (Basilio il Grande, Omelia sulla santa nascita di Cristo, 2).

Il Verbo di Dio, dunque, Dio, Figlio di Dio, che era all’inizio presso Dio e per mezzo di cui tutto è stato fatto (Gv 1, 2-3), si è fatto uomo per liberare l’uomo dalla morte eterna; e si abbassò ad accettare la nostra umiltà, senza diminuire la sua maestà, in modo che restando quello che era e assumendo quello che non era, unì in sé una vera natura di servo alla natura sua, nella quale è identico a Dio Padre. Le unì con un legame tanto stretto che la gloria non consumò la natura inferiore, né l’assunzione diminuì la natura superiore. Restando integra ogni proprietà di ambedue le nature e convenendo in un’unica persona, dalla maestà viene assunta l’umiltà, dalla forza l’infermità, dall’eternità la mortalità; e per cancellare il debito della nostra condizione, la natura passibile si è unita alla natura inviolabile: il Dio vero e l’uomo vero sono presenti nell’unico Signore; così come richiedeva la nostra redenzione, l’unico e identico mediatore tra Dio e l’uomo potè morire per l’uno e risorgere per l’altro (Leone Magno, Sermoni, 21).

Sia Matteo che Luca cominciano a narrare la generazione del Signore dalla sua nascita corporale. Giovanni, invece, comincia narrando la nascita eterna del Verbo. Era stabilito che gli evangelisti ci potessero trasmettere mediante un duplice mistero e in qualche modo attraverso una duplice narrazione - sia la generazione eterna che quella corporea del Signore. Non si trovano parole umanamente adeguate, tali che possano esprimere in modo esauriente l’una e l’altra generazione del Signore. Più difficile certamente è parlare della generazione eterna del Verbo che procede dal Padre; tale fatto supera qualsiasi possibilità di narrazione, dato che l’evento sorpassa infinitamente le capacità di comprensione della nostra attonita meraviglia. La nascita corporea del Cristo avviene nel tempo; quella divina prima dei tempi; quella corporea avviene nel nostro secolo; quella divina prima dei secoli; la nascita corporea avviene da una Madre che è vergine; quella divina da Dio Padre. Testimoni della nascita terrena poterono essere sia degli uomini che degli angeli; della nascita divina del Signore, unici testimoni furono il Padre e il Figlio, perché niente era prima del Padre e del Figlio. Ma poiché il Verbo Dio non avrebbe potuto essere visto da nessuno nella gloria della sua divinità, assunse una carne visibile, al fine di rendere visibile la sua invisibile divinità. Da noi ha preso ciò che è nostro, allo scopo di farci dono di ciò che è proprio di lui (Cromazio di Aquileia, Commento al vang.di Mt).

- Alcune domande per la riflessione personale e il confronto:
Quali reazioni da parte nostra al mistero del Natale?
Ci riscopriamo veramente felici perché il Salvatore è nato anche per me / per noi?
Quale deve essere la nostra risposta al messaggio del Natale?
Come non riamare uno che ci ha amato tanto?

Pregare
Raccogliamoci in silenzio ripercorrendo la nostra preghiera e rispondiamo al Signore con le sue stesse parole (dal Sal 97):

Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto prodigi.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha manifestato
la sua salvezza,
agli occhi dei popoli
ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa di Israele.

Tutti i confini della terra
hanno veduto
la salvezza del nostro Dio.
Acclami al Signore tutta la terra,
gridate, esultate con canti di gioia.

Cantate inni al Signore con l'arpa,
con l'arpa e con suono melodioso;
con la tromba e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore.

Contemplare-agire
Nel silenzio del cuore incontra il Signore. Ripeti spesso e vivi questa Parola: il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.